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Oltre l'intenzione. Antropologia tra intenzionalità ed effetti inattesi

Militanza, “impegno” e critica sociale dell’antropologia sulla base di intense etnografie. Le intenzioni trasformative e i giudizi politici dell’antropologo

Militancy, 'engagement', and social criticisms in anthropology, on the base of intensive ethnographies. The transformative intentions and political judgements of the anthropologist
Antonino Colajanni

Abstract

Il saggio si dedica a una analisi storica degli impegni progressivi dell’antropologia nello studio del mondo moderno, contemporaneo, riflettendo soprattutto sui rapporti tra la conoscenza antropologica, le forme di potere e l’azione sociale trasformatrice. A partire da una analisi delle responsabilità dell’antropologia nell’età coloniale, viene poi dedicata una specifica attenzione alla nascita e sviluppo di una antropologia “impegnata” (engaged anthropology), con riferimento soprattutto agli Stati Uniti, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento. Si sviluppa, in particolare, una radicale trasformazione degli oggetti di ricerca (conflitti, violenze, disagi sociali, condizione femminile, guerre, crisi ambientali). Viene poi analizzato il dibattito nato in anni recenti in Italia su un saggio di Fabio Dei, dedicato alle critiche radicali nei confronti dello Stato. Si sostiene che il contributo migliore della “antropologia impegnata” può venire solo da studi e ricerche etnografiche molto intense e di tempi medio-lunghi. Viene dato rilievo agli “impegni-soft” nei quali si crea uno stabile equilibrio tra la ricerca intensa e continua e i frequenti impegni laterali di appoggio alle condizioni sociali delle comunità studiate. Il saggio si conclude con la descrizione di alcuni impegni-soft dell’autore nel corso delle sue ricerche.

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Testo integrale

1L’antropologia ha da sempre rivolto una intensa attenzione ai problemi del “mondo moderno”. Fin dai primi grandi antropologi dell’Ottocento, la disciplina si è spesso impegnata nella convinzione di poter sostenere, attraverso la conoscenza approfondita dei contesti sociali e degli interessi e aspirazioni delle comunità studiate, le proposte di miglioramento delle condizioni sociali e dei problemi delle popolazioni oggetto di studio. Per esempio, Edward Burnett Tylor nelle ultime righe della sua Primitive Culture (1871), concludeva ottimisticamente con queste parole: «Dunque, attiva a un tempo nell’aiutare il progresso e nel rimuovere l’arretratezza, la scienza della cultura è essenzialmente una scienza del riformatore (a reformers’ science)» (Tylor 1873: vol. II, 453). Alcuni decenni dopo anche Franz Boas, nel suo libretto del 1928 Anthropology and Modern Life, si sforzava di dimostrare che la scienza dell’uomo aveva molte cose da dire sui processi sociali del proprio tempo, con critiche e suggerimenti forti, anche sui modi di vita delle società “civilizzate”. Il razzismo, i rapporti tra i diversi gruppi sociali nei contesti coloniali, l’eugenica, il nazionalismo, erano problemi del mondo a lui contemporaneo che si potevano affrontare e anche risolvere con l’aiuto della conoscenza antropologica. Egli affermava: «Una chiara comprensione dei principi dell’antropologia può illuminare i processi sociali del nostro tempo e può mostrarci, se siamo disposti ad ascoltarne gli insegnamenti, che cosa fare e che cosa evitare» (Boas 1998: 3). Sulla figura di Franz Boas (e del gruppo dei suoi allievi della Columbia University, Margaret Mead e Ruth Benedict, innanzitutto), valutato come figura accademica e di uomo costantemente e spregiudicatamente impegnato nel sociale e nella politica relativa alle sue ricerche sulla razza, i pregiudizi e le discriminazioni, Charles King ha scritto un ricco e dettagliato volume che costituisce una assoluta rarità, per la minuzia della ricca documentazione presentata, nel campo delle ricostruzioni complete della vita e degli impegni sociali di un illustre studioso (King 2019).

2Questa disponibilità ad affrontare problemi, difficoltà, contrasti, delle società moderne ha anche influenzato, nei decenni successivi, il progressivo affermarsi di un orientamento “applicativo” degli studi antropologici; in esso, con alterne qualità ed efficacia, prevaleva a volte una attitudine a “collaborare” con i poteri che determinavano i cambiamenti della società, o invece si manifestava una più impegnativa attività di critica e di “esercizio di influenza” – sulla base della specifica conoscenza prodotta dalle ricerche – nei confronti delle decisioni dei poteri. Si tratta, in questi casi, di una importante “finalità aggiuntiva” della professione antropologica, oltre a quella più tradizionale della produzione di conoscenza su situazioni sociali prima non ben conosciute. Bisogna però osservare che c’è una certa differenza tra la situazione nella quale l’antropologo si trovava a lavorare, soprattutto in passato, presso società isolate e che magari subivano in misura limitata la pressione di poteri forti venuti dall’esterno, e invece la situazione – per esempio – di gruppi umani sottoposti a diretto ed evidente controllo politico dall’esterno (come avveniva nella maggior parte dei contesti coloniali, e in anni più recenti nei contesti marginali degli stati moderni). In questi casi mi sembra che il riferimento a rilevanti “impegni politici” o etici dell’antropologo nei confronti dei soggetti sociali sottoposti a dominio, non sia l’unico tema di riflessione e analisi, senza prima svolgere un’attività investigativa specifica sul contesto sociale. In queste occasioni, infatti, i contesti di potere costituiscono l’ineliminabile ambito ampio di carattere sociale, giuridico e politico, del quale l’antropologo deve, e non può farne a meno, tener conto nella sua ricerca. Il potere esterno, in questi casi, è semplicemente un “dato di fatto della situazione sociale complessiva” che lo studioso deve sottoporre ad analisi; in caso contrario la sua ricerca risulterà colpevolmente parziale e silente su un argomento centrale, perché l’azione diretta e indiretta del potere esterno sulla società locale condiziona ed esercita influenza sui comportamenti quotidiani, i costumi, le idee e i valori del gruppo indigeno o rurale considerato. In queste situazioni, solo una attenta e intensa “etnografia del potere” potrà consentire di proporre, poi, delle conclusioni ed eventualmente delle accuse e delle proposte di azione politica. Come dire che la ricerca intensa ed accurata dovrebbe avere, in ogni caso, la precedenza temporale e logica sulle valutazioni ideologico-politiche, che – se anticipate in maniera rapida e approssimativa – possono influenzare ed abbreviare, distorcendoli, i caratteri propri della ricerca etnografica e anche rendere inadeguate le proposte politiche.

3Il problema della “intenzionalità” dell’antropologo va dunque approfondito. È importante registrare le sue finalità esplicite ed implicite: in alcuni casi si possono limitare esclusivamente alla crescita del sapere; ma, come accennato, ci dovrebbe anche essere il possibile contributo al miglioramento delle condizioni di vita degli attori sociali studiati, che in molti casi vivono in condizioni di marginalità, povertà, sottomissione a poteri esterni. La “critica” ai poteri esistenti e l’azione sociale trasformatrice possono dunque far parte integrale del lavoro antropologico, ma c’è da chiedersi se v’è una possibile contraddizione tra i due termini, e se sia facile costituire uno stabile equilibrio tra i due livelli. Giacché la critica può favorire una distanza ingombrante dai poteri criticati, e l’azione sociale trasformatrice invece impone una diretta e libera “implicazione” del ricercatore nei contesti operativi. Come le due prospettive possono essere coordinate e potenziate insieme? Una parte dell’antropologia applicata degli ultimi decenni sostiene che questa coordinazione sia possibile. Tuttavia, una attenta analisi delle più accese polemiche degli ultimi tempi, di vari antropologi nei confronti dei poteri (soprattutto coloniali), dimostra una frequente adozione del linguaggio “politico” abbreviato, senza approfondite analisi documentarie che facciano del problema dei poteri coloniali un oggetto di attenta riflessione socio-antropologica a tutto tondo; e d’altronde, l’apparente impegno in azioni sociali trasformatrici appare – come detto – spesso anch’esso approssimativo, senza che sia approfondito con attente analisi socio-antropologiche lo studio del processo di ricerca-azione che comporta una trasformazione di attività, idee, valori, e una serie di strategie comunicative, in complesse dinamiche di tempi medio-lunghi. Una prima, preliminare conclusione è quella che la “militanza”, “l’impegno politico” e la “critica sociale” dell’antropologia possono avere un senso adeguato e costruttivo solo se sono accompagnati, stabilmente e continuamente, da una intensa e accurata ricerca etnografica, che si realizzi attribuendo grande importanza attiva ai soggetti sociali, ai loro “punti di vista”, alle loro intenzioni e azioni, ai loro giudizi e interessi. Solo in tal modo possono assumere una sostanza autonoma e originale.

4In questo intervento intendo dedicarmi ad un rassegna storica degli scritti antropologici che hanno affermato la opportunità, anzi necessità, dell’“impegno” politico-sociale come parte sostanziale della ricerca antropologica; in riferimento soprattutto ai dibattiti che si sono svolti negli ultimi decenni negli Stati Uniti. Ma prima riteniamo necessaria una breve parentesi sul “periodo coloniale” e sulle difficoltà per l’antropologo in quei contesti. Infatti, le ricerche accurate di un numero ristretto di antropologi hanno dimostrato che non era facile per un ricercatore realizzare una indagine etnografica senza subire in vari modi la pressione o la critica degli amministratori distrettuali, per esempio nell’Impero britannico; e ciò condizionava, ovviamente, l’attitudine e la disponibilità ad assumere “impegni attivi” a favore delle popolazioni presso le quali si lavorava. Ci sono vari esempi di contrasti e incomprensioni, che spinsero – per esempio un grande antropologo come Evans-Pritchard – a scrivere un saggio sull’antropologia applicata molto scettico, che divideva nettamente il campo della ricerca sociale da quello delle decisioni politiche che “spettavano agli amministratori”. La prudenza e l’atteggiamento diplomatico erano dunque spesso opportuni, se non necessari (Evans-Pritchard 1946).

5Ma non si può negare che ci siano casi documentati nei quali gli antropologi del periodo coloniale possono essere seriamente criticati:
- A. Innanzitutto, pochissimi di essi si sono impegnati nell’analisi accurata socio-antropologica, del colonialismo come sistema, nei suoi diversi livelli (dalle strategie e le politiche a livello centrale del governo inglese, ai sostegni e giustificazioni “ideologiche”, alle azioni autonome degli amministratori locali, alle dinamiche dei diversi tipi di colonie, infine alle differenze tra il colonialismo dei differenti paesi europei). Insomma, il “potere coloniale”, come forma e contenuti sociali è stato poche volte inserito nel quadro necessario di indagini dei ricercatori;
- B. Spesso gli antropologi o non “hanno visto” o hanno taciuto gravi forme di repressione attuate dai poteri coloniali, e questa è la critica più radicale;
- C. Raramente gli antropologi hanno registrato attentamente le opinioni e i racconti degli indigeni, nonché i giudizi, sui poteri coloniali. Ed hanno poco registrato le discussioni locali su questi temi;
- D. C’è anche da osservare che nell’età coloniale la maggior parte degli antropologi erano convinti che loro compito fosse soprattutto quello di ricostruire, registrare, documentare, le culture “tradizionali”, pre-europee, dei popoli dell’Africa e del Terzo Mondo in generale, considerando i cambiamenti indotti dall’Occidente come turbative, eliminazione o radicale trasformazione delle culture “originali”. Fu proprio contro questi atteggiamenti che Malinowski si schierò continuamente negli anni ’30.

6Ci sono, ovviamente, alcuni casi di antropologi che hanno manifestato, saltuariamente, attitudini contrastive e attive nei confronti dei poteri del contesto nel quale svolgevano la loro ricerca. Per esempio, Siegfried Nadel, nel suo saggio sull’antropologia applicata pubblicato quando si era trasferito in Australia, si espresse molto chiaramente: «L’antropologo deve scendere sul campo e combattere contro i politici» (Nadel 1953: 16). Naturalmente, con le sue armi specifiche, che sono la conoscenza (di entrambi i fronti in contatto), la capacità di argomentazione e di comunicazione. Le posizioni anti-coloniali, a partire dal secondo dopoguerra, sono numerose, anche se quasi sempre consistenti in brevi e sintetiche accuse approssimative e rigide, e spesso non tengono conto del fatto che è molto semplice e facile scagliarsi con invettive contro il colonialismo quando non esiste più (almeno in maniera diretta). Vanno inoltre anche sottolineati – ovviamente – i limiti dell’“anti-colonialismo”, che molto raramente, negli anni Venti-Quaranta del secolo passato, manifestava i caratteri che assunse poi a partire dagli anni Cinquanta.

7Va anche sottolineato che le critiche aspre e severissime pubblicate a partire dagli anni ’80, sulla “antropologia come ancella del colonialismo”, sono in massima parte mal documentate, superficiali e politico-ideologiche, esempi lampanti di “pensiero abbreviato”. Ma esistono anche, fortunatamente, alcuni studi analitici approfonditi, sulla base di documentazione d’archivio, svolti con metodologia storica accurata, che riscattano queste crocifissioni inappropriate. Basterà ricordare alcuni nomi: Nicholas Dirks, che ha curato la ripubblicazione, in un bel volume, di numerosi saggi usciti nella importante rivista “Comparative Studies in Society and History”, dai quali si trae l’idea che il colonialismo non fu solo un complesso di imprese economiche e di controllo territoriale-politico, ma fu “un grande progetto di controllo culturale”. Nel volume è contenuto un bellissimo saggio di Frederick Cooper sulla “colonizzazione del tempo: i ritmi di lavoro e i conflitti di lavoro nella Mombasa coloniale”; e un fondamentale intervento di Ann Laura Stoler sulla necessità di “ripensare le categorie coloniali” (Dirks 1992); Nicholas Thomas, ha scritto un libro pieno di suggerimenti molto interessanti per riesaminare con cura la documentazione esistente non solo sulle “azioni” coloniali, ma anche sul rapporto tra “cultura e regole del dominio” e sulle teorie del “discorso coloniale” (Thomas 1994); di assoluto rilievo per la ricca documentazione empirica proveniente da numerosi Paesi dell’Asia è anche la raccolta di saggi curata da Peter Pels e Oscar Salemink, che ha anche una ricca Introduzione molto critica sulla “Etnografia come pratica coloniale” (Pels, Salemink 1994); ma i due autori menzionati hanno anche, anni dopo, curato una ricca antologia dedicata ai diversi “Soggetti coloniali” (Pels, Salemink 1999); Ann Laura Stoler ha anche pubblicato uno straordinario e insolito volume, dedicato all’analisi meticolosa ed “etnografica” di una grande biblioteca coloniale olandese, registrando chi produceva i documenti dell’Amministrazione Coloniale Olandese, quale era la loro tipologia, chi li consultava, e così via (Stoler 2009); ma il libro più ampio e generale sul tema è quello curato da George Stocking e che esamina con cura le diverse “Situazioni Coloniali”, mirando soprattutto alla contestualizzazione della conoscenza etnografica prodotta dagli antropologi (Stocking 1991); altri autori di volumi importanti sul tema sono Frederick Cooper, Lyn Schumaker, e infine John Comaroff.

8Il dopoguerra e la decolonizzazione hanno certamente influito su un cambiamento abbastanza netto negli orientamenti generali dell’antropologia, e soprattutto nella progressiva “inclusione” di giudizi, valutazioni critiche, proclamazioni di necessità, di “aggiunte” politico-ideologiche, alle finalità tradizionali degli studi antropologici. Criticare il colonialismo, apprezzare e favorire gli sforzi dei popoli africani nella costruzione dei nuovi stati post-coloniali, sono diventati progressivamente una sorta di dovere per gli antropologi, soprattutto delle giovani generazioni. Ovviamente, va osservato che era abbastanza facile criticare le ipotetiche “compromissioni” del passato, e sostenere le rivendicazioni politiche del presente, anche perché lavorare nei nuovi Stati africani non era facile per gli europei che non mostrassero una sorta di “rottura” con il passato coloniale. Di fatto, non si può negare che si sia verificata la nascita e lo sviluppo di una sorta di “complesso di colpa” nell’antropologia contemporanea. Le colpe dei padri dell’antropologia dei decenni passati cominciarono ad essere identificate (un po’ superficialmente) nei corsi universitari (proprio a questo tema delle “colpe dei padri” è dedicato il bel saggio di Henrika Kuklick del 1978); e questo processo di colpevolizzazione serve forse anche per “liberare” le giovani generazioni dalla pesantezza di un passato che a volte veniva presentato come carico di grandi responsabilità (non avere, per esempio, combattuto esplicitamente e con forza, contro i sistemi coloniali, come se potesse essere cosa facile). Queste considerazioni, e anche una lenta ma costante diffusione di idee molto efficaci sui “doveri morali e politici” del ricercatore, che si aggiungevano a quelli della “serietà scientifica”, contribuirono dunque, a partire dagli anni Settanta del secolo passato, ad estendere quasi stabilmente le finalità dell’antropologia, mettendo in larga discussione l’idea del “distacco scientifico” degli studiosi dai problemi sociali e politici. È questo dunque il periodo della nascita dell’engaged anthropologist e dell’“antropologia militante”, che aggiungevano nuovi compiti istituzionali agli studi antropologici. In tal modo si stabilizzò definitivamente la rilevanza dei fini politico-sociali per la produzione di informazioni e di nuovi saperi, connessi stabilmente con le ricerche empiriche tradizionali. Ma, naturalmente, andrebbero calcolate accuratamente le difficoltà, i “costi” ed i “rischi” della militanza per l’antropologo.

9Una breve analisi della letteratura recente sull’“impegno” politico-sociale dell’antropologia può consentire di valutare un cambiamento abbastanza consistente nella definizione delle “finalità” della scienza dell’uomo. Il quadro che segue si riferisce ai contributi provenienti dal mondo anglosassone (engaged anthropology), in particolare statunitense; lo spazio limitato di questo intervento non permette di analizzare anche il mondo francese (che utilizza la definizione di détachement et engagement anthropologique; e di antropologie impliquée), e il mondo latino-americano e spagnolo (che definisce questi orientamenti come antropología y compromiso ético-político; o antropología comprometida).

10Prima di iniziare questa breve rassegna dei dibattiti sul tema dell’“impegno” politico e della “militanza” dell’antropologo, vorrei fare qualche osservazione generale, che può servire da premessa, penso necessaria. Inizierei dal considerare che, certo, a partire dagli anni ’80 del secolo passato è cominciata una riflessione autocritica dell’antropologia, incentrata su alcuni punti centrali, che provo a sintetizzare:
- A. Una messa più o meno radicale in discussione della tradizione positivista e “scientista”, che vedeva lo studioso come un raccoglitore di dati “oggettivi”, in grado di consentire nette generalizzazioni, “leggi”, e cose del genere. Si è dunque diffusa, al contrario, una concezione “probabilistica” della ricerca, come “approssimazione”, dipendente da una serie di variabili (interne, soggettive, circostanziali, ed esterne, di pressione da parte di poteri diretti o indiretti);
- B. Di conseguenza, si è per così dire “attenuata” ed “abbassata” la posizione del ricercatore, e ne è conseguito un “innalzamento di livello” della società studiata, e di alcuni degli informatori più qualificati, che sono spesso diventati “co-autori” di opere degli antropologi. Le idee diffuse, le pratiche sociali, i punti vista e le visioni di mondo del gruppo studiato, hanno lentamente assunto un ruolo centrale, perfino dominante;
- C. La soggettività del ricercatore, le sue emozioni e tensioni materiali e/o ideali, sono progressivamente diventate molto rilevanti; ne è scaturita la cosiddetta “antropologia riflessiva” e “auto-critica”;
- D. I contesti social-politici, i conflitti con i poteri locali e nazionali, i movimenti e le tensioni politiche, le forme dirette e indirette di dominazione sulla società o gruppo marginale studiato, hanno sempre più guadagnato importanza, e hanno frequentemente assunto il livello di “oggetti centrali ed ineliminabili della ricerca”;
- E. Conseguentemente, è progressivamente diminuito, soprattutto nelle giovani generazioni di studiosi, il rilievo, la centralità, l’importanza una volta cardinale, della impostazione accademica con le sue regole, i suoi costumi, i suoi criteri di valutazione; il che non ha sempre generato una analisi e consapevolezza critica del fatto che – comunque – i ricercatori hanno (o dovrebbero avere) una formazione specifica (studi universitari in antropologia, dottorati, diplomi) che conferisce loro una “identità” particolare, un insieme di finalità ed obiettivi conoscitivi, di metodi e assunti teorici, che dovrebbero – in ogni caso – precedere e orientare ogni altro tipo di impegno e finalità, che pure è giusto includere nel bagaglio delle finalità della ricerca; insomma, si è diffuso un progressivo apprezzamento per la anthropology outside academia.
-F. In concomitanza con la progressiva trasformazione e modernizzazione (cioè “occidentalizzazione”) socio-culturale delle società marginali tradizionali che originalmente costituivano l’oggetto primario delle ricerche antropologiche, si è prepotentemente diffuso tra gli antropologi delle giovani generazioni, ma non solo tra di essi, un atteggiamento “anti-esotistico”, che ha spostato l’attenzione e gli interessi verso aspetti generali e particolari delle “società complesse” contemporanee, dei fenomeni sociali e culturali del “nostro mondo”; ed ha anche, del resto, attenuato consistentemente la rilevanza che al tema della “diversità culturale” attribuiva l’antropologia delle generazioni passate.
- G. È in questo contesto che ha potuto svilupparsi l’idea della opportuna, se non necessaria, “militanza” dell’antropologo all’interno dei processi, obiettivi, valori e lotte sociali del gruppo studiato. È evidente che questo orientamento tende a ridurre al minimo la “differenza” ed “estraneità” del ricercatore rispetto alla società locale studiata. Questa sorta di “mimetismo politico-sociale”, tuttavia, nasconde delle difficoltà, che prima o poi possono insorgere. Infatti, per quanto tenti di “implicarsi” nei processi social-politici della società locale, il ricercatore è pur sempre – in fondo – un estraneo, che potrebbe, purtroppo, provare difficili problemi in questo non agevole processo: gli obiettivi social-politici e le lotte della società locale non si svolgeranno – naturalmente – secondo i metodi dell’analisi antropologico-politica tradizionale, ma potranno assumere contrazioni ed abbreviazioni tipiche della azione e comunicazione politica “on the ground”. E infine, il ricercatore, identificandosi fino in fondo con gli obiettivi e le forme di azione del gruppo studiato, potrebbe correre dei rischi da parte dei poteri dominanti. Insomma, forse è legittimo che sorga il dubbio se “appoggiare dall’esterno” certe rivendicazioni, agire come autorevole “rappresentante” e “difensore” del gruppo presso il quale si lavora, sfruttando fino in fondo la eventuale “autorevolezza” che può venire dalla identità universitaria, e magari dalla Istituzione che ha finanziato la ricerca.

11Le riflessioni critiche e gli interventi sul tema della engaged anthropology iniziano nel mondo anglosassone con la pubblicazione, nel 1979, degli Atti di una parte rilevante dell’International Congress of Anthropological and Ethnological Sciences di Chicago celebrato nel 1973. Un intero volume contiene numerosi saggi critici e auto-critici di antropologi molti dei quali provengono dall’Africa, dall’Asia e dalle Americhe indigene. Un saggio rilevante per il tema qui affrontato è quello di Mina Davis Caufield (Participant observation or partisan participation?), che esordisce facendo riferimento ai dibattiti sulla etica professionale della disciplina, notando che si sono soffermati su due aspetti fondamentali: il “cattivo uso” dei dati antropologici e sociologici (da parte di soggetti soprattutto esterni), e il costante tentativo degli antropologi di liberarsi dal rischio di complicità con le pratiche abbastanza correnti dei governi contemporanei (genocidio, etnocidio, operazioni di “controinsurgenza”, attività di sfruttamento da parte di corporazioni); anche per evitare una sorta di “paralisi” determinata dalla consapevolezza di una “colpa collettiva” (reazione agli orrori della guerra in Vietnam, ecc.). E aggiunge che sono frequenti gli esempi di “disumanizzazione” nelle ricerche sul campo, nelle quali si trattano gli informatori come “oggetti da essere studiati” piuttosto che come soggetti partecipanti coinvolti nel processo di reciproca comprensione tra le culture. L’autrice ne ricava una convinzione: bisogna ridefinire le finalità tradizionali della nostra professione, ed escludere l’atteggiamento diffuso delle teorie antropologiche ‘value-free’, e lavorare per una riforma nel senso di un orientamento partigiano nella direzione di una “conoscenza per la libertà”, di una “scienza per la gente”, di una unità di teoria e prassi che possa contribuire a una liberazione di uomini e donne, nel mondo. I risultati concreti di queste considerazioni etico-politiche generali sono: il frequente rifiuto di pubblicazione di certi dati di ricerca che possano essere pregiudizievoli per gli attori sociali, la trasformazione dell’antropologo da outsider in insider, la crescente importanza attribuita agli “antropologi indigeni”, che producano lavori orientati dall’interno della società locale. Questi orientamenti si accompagnano ad una seria “auto-analisi” del ricercatore, a forme di “co-investigazione”, secondo i suggerimenti di autori come Paulo Freire e Rodolfo Stavenhaghen. La conclusione, efficace dal punto di vista comunicativo, ma abbastanza discutibile è che «il più efficace osservatore e interprete di una cultura è un professionista che venga dallo stesso background culturale». Il “nuovo metodo” che l’autrice propone si basa su un orientamento verso progetti problem-solving, nei quali “prendere parte” diventa indispensabile, e il flusso delle informazioni è opposto a quello tradizionale: non verso l’accademia o verso gli “esterni” alla società locale, ma verso la società della quale l’investigatore deve ormai fare parte. Il saggio si conclude con l’affermazione che «ciò che è importante non è ciò che si trova nella ricerca, ma quello che si fa, durante e dopo l’impegno investigativo». In questo senso, si sostituirebbe la “osservazione partecipante” con la “partecipazione partigiana”.

12Non molto diverso da questo intervento è quello di Manucheher Sanadjian, From participation to partisan observation: an open end, del 1990. Questo saggio è tutto basato su una difficile e rischiosa esperienza di ricerca antropologica in Iran svolta tra il 1979 e il 1982, al tempo della rivoluzione contro lo Shah, in un contesto di conflitti sanguinosi tra il nuovo governo e diversi gruppi marginali. Il saggio insiste molto sulle difficoltà, le contraddizioni del ruolo del ricercatore in un contesto così difficile, i dubbi sul ruolo svolto e sulle implicazioni pratiche della ricerca sulla gente presso la quale lavorava. Nel processo continuo del lavoro sul campo, di fatto la ricerca sociale divenne una parte integrale delle riforme sociali ed economiche che si desideravano nella regione. Gli attori sociali erano spesso in forti dubbi nello sforzo di identificare a quale specifica parte dello spettro politico il ricercatore apparteneva, nella sua “ricerca-azione” che si andava costruendo. Il tema centrale di riflessione era il seguente: «Sono un semplice osservatore o un attore sociale in senso stretto?». E inoltre, era opportuno interrogare gli attori sociali oppure avere semplicemente un dialogo con essi? Difficoltà, contrasti, incertezze, distanza dalle istituzioni locali e incomprensioni con la gente del luogo, resero dolorosa e insicura la ricerca, anche perché il ricercatore era a corto di risorse per mantenersi sul campo. Alla fine, accettò un lavoro parziale presso una compagnia privata che costruiva una strada. Ciò, naturalmente, generò sospetti ed ulteriori difficoltà. Il saggio si conclude con forti dubbi sulla “partecipazione” dell’antropologo in determinate situazioni sociali e politiche. E a volte la “identificazione” con la popolazione oppressa da poteri ufficiali rende difficile intendere le logiche e le strategie dei poteri a livello locale. E, certo, appare positivo il progressivo coinvolgimento nella vita sociale e politica del gruppo umano studiato, che modifica – ovviamente – la figura degli informatori tradizionali della ricerca antropologica. Ma l’autore propone anche – sulla base della sua difficile esperienza – una nozione più diffusa, estesa, e concepita in termini più astratti, di “partecipazione” e di “partigianeria”, notando anche criticamente gli eccessi di un possibile over-engagement.

13Negli anni ’90 il dibattito sull’impegno politico dell’antropologia si arricchisce di numerosi saggi pubblicati sulla rivista statunitense Current Anthropology, che dedica ai nostri temi una costante attenzione. Vanno ricordati un breve e pungente articolo di Merrill Singer (Another Perspective on Advocacy, 1990), e un ricco e molto ben articolato saggio, accompagnato da lunghi commenti, di John W. Bennett del 1996, che affronta sia il livello delle intenzioni, che quello delle azioni concrete e dei risvolti teorico-ideologici (Applied and Action Anthropology: ideological and conceptual aspects).

14Ma vogliamo soffermarci su un numero della stessa rivista dedicato al tema: Objectivity and Militancy: a debate del 1995. Si tratta di due saggi, con successivi commenti di otto colleghi e una replica di ciascuno dei due autori. Essi sono: Roy D’Andrade (Moral models in Anthropology) e Nancy Scheper-Hughes (The primacy of the ethical. Propositions for a militant anthropology). D’Andrade difende con energia il carattere di “oggettività” e di “scientificità” che dovrebbe avere l’antropologia e sostiene che ogni possibile autorità morale che gli antropologi possano pretendere non può che dipendere da una “oggettiva comprensione” del mondo sociale studiato, e che i modelli morali e quelli della oggettività scientifica devono essere ben distinti. Il saggio di Nancy Scheper-Hughes è dedicato invece con grande intensità al tema della importanza centrale dell’Etica nell’antropologia moderna, di fronte alle sofferenze, i pregiudizi e i disagi provati dai gruppi umani studiati dagli antropologi nell’epoca della “post-modernità”. L’autrice, una specialista soprattutto di antropologia medica, ha svolto intense e ripetute ricerche nel Nordest del Brasile, in una regione povera e fortemente disagiata, nella quale ha costruito una ricca e dettagliata monografia etnografica, che contiene anche una descrizione puntuale delle ragioni contestuali, delle esperienze personali, che l’hanno spinta verso una scelta di engagement; il libro insomma costituisce un caso raro di motivazione e comunicazione coraggiosa delle scelte soggettive, di carattere “politico” che hanno accompagnato la ricerca (Scheper Hughes 1992). L’autrice ha poi lavorato in Sudafrica, in zone dominate da discriminazioni e forti pregiudizi anti-neri della popolazione bianca. Le difficoltà sul campo e le reazioni degli attori sociali nei confronti di atteggiamenti “neutrali” e non pienamente “partecipativi”, l’hanno spinta – alla fine – a trasformarsi «da antropologa “oggettivista” in antropologa-“compagna”, politicamente e moralmente impegnata, dividendo il suo tempo tra l’impegno nella ricerca e il lavoro politico che le assegnavano gruppi attivisti degli attori sociali. In questo processo, la sua comprensione dei problemi della comunità è cresciuta molto e i suoi orizzonti teorici si sono espansi. Il saggio è cosparso di critiche (per la verità generiche e non approfondite né dettagliate) alla corrente “antropologia accademica”, con enfasi contro il “relativismo culturale”, l’uso discutibile del concetto di cultura che spesso allontana dall’analisi delle situazioni sociopolitiche complesse, e la consueta distanza degli antropologi dai problemi politici pressanti. Naturalmente, la Scheper-Hughes è cosciente dei rischi che si possono correre in situazioni politiche di dominazione neocoloniale (cita il caso dell’antropologo sudafricano David Webster ucciso in circostanze poi non adeguatamente indagate dalla polizia sudafricana). La conclusione sta tutta nel potenziamento della formazione di antropologi locali, nel sottolineare non la “differenza”, ma la “comunanza” tra l’antropologo e la gente del luogo, nel sottolineare la necessità di un orientamento etico nella ricerca. Infine, la opposizione deve essere, a suo parere, netta, tra l’antropologo come “spettatore” e l’antropologo come “testimone”, e quindi l’affiliazione della disciplina più che alla “scienza” alla “storia”. L’antropologia dovrebbe insomma essere un campo di azione, ed una occasione, anche, per investire risorse (come le royalties derivate dalla vendita dei propri libri) nel supporto di azioni politiche locali radicali. Dobbiamo subito osservare che questo saggio, in massima parte giustificato dalle difficili e conflittuali situazioni sociali con le quali l’autrice si è dovuta confrontare, di fatto manifesta soprattutto una strategia “strumentale”, che tende a far accettare un investigatore estraneo, “scomodo” per la società locale. Ma manca nel saggio ciò che avrebbe potuto illustrare a fondo gli effetti di medio-lunga durata della presenza sul campo: cioè l’analisi della catena di interferenze, “positive” rispetto al processo di resistenza politica del gruppo sociale studiato (cioè le “azioni” ed i “risultati politici” che l’intervento della ricercatrice ha determinato). I commenti, le valutazioni critiche al saggio (secondo il costume della rivista Current Anthropology) sono di grande interesse. A proposito dell’etica della professione antropologica e della critica radicale a comportamenti “non-scientifici” di un antropologo, vorrei richiamare un importante e ricco saggio del nostro Alessandro Mancuso, che ricostruisce bene il dibattito internazionale sul tema e si dedica alla famosa “controversia Yanomami”, che coinvolse un noto studioso americano, Napoleon Chagnon (Mancuso 2021).

15Una interessante distinzione tra activist research e cultural critique è proposta da Charles. R. Hale in un saggio del 2006 pubblicato nella rivista Cultural Anthropology. La prima consiste in un metodo attraverso il quale si realizza un allineamento politico con un gruppo organizzato di gente che combatte per una finalità sociale e politica, attraverso un dialogo intenso e un coinvolgimento in tutto il processo di ricerca-azione. La critica culturale è invece un procedimento di ricerca e scrittura di saggi nel quale l’allineamento politico è manifestato solo attraverso il contenuto della conoscenza prodotta e non attraverso la relazione stretta e attiva stabilita con un gruppo organizzato che vive nel contesto di una lotta politica.

16Una importante occasione di discussioni e dibattiti sul tema della engaged anthropology, che si può dire abbia costituito un punto di riferimento quasi obbligato nell’antropologia americana, è stata organizzata nel 2008 a New York dalla “Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research”. Si tratta del Workshop intitolato: The anthropologist as social critic: Working toward a more engaged anthropology (che venne pubblicato a cura della Wenner-Gren due anni dopo, nel 2010). Parteciparono attivamente una decina di studiosi; i temi affrontati e discussi, con posizioni non sempre coincidenti ma comunque abbastanza sobrie e argomentate (e quasi mai allineate con lo stile di alcuni antropologi “radicali”, ipercritici e spesso non ben documentati), sono – nella loro progressione di crescente “impegno” – i seguenti: 1. “Condivisione e supporto”; 2. “Insegnamento ed Educazione Pubblica”; 3. “Critica sociale”; 4. “Collaborazione”; 5. “Assistenza anche giuridica” (Advocacy); 6. “Attivismo”. Questi temi vengono indicati nella impegnata Introduzione alla ricca collezione di saggi, scritta da Setha M. Low e Sally E. Merry, che affronta l’argomento della diversità di opinioni e dei dilemmi della “antropologia impegnata” (Low, Merry 2010). I saggi presentati al Workshop e poi pubblicati nella rivista affrontano temi importanti, come “L’antropologo in qualità di critico sociale” (Susser 2010), “La responsabilità sociale e il cittadino antropologico” (Johnston 2010), “L’impegno, la gentrificazione e il neoliberismo” (Herzfeld 2010), “La sincerità etnografica” (Jackson 2010), “I pericoli dell’impegno” (Spencer 2010), “Per una pratica etnografica criticamente impegnata” (Clarke 2010). Un panorama, come si vede, ricco e sostanzialmente completo, che conviene considerare come punto di riferimento del dibattito internazionale sui nostri temi.

17L’anno dopo, nel 2009, fu pubblicato un saggio molto importante e ricco di informazioni e analisi sulla storia dell’antropologia americana e delle sue radicali trasformazioni a partire dagli anni Sessanta - Settanta del secolo passato. L’autore, Herbert Lewis (The radical transformation of Anthropology), offre un quadro dettagliato e ben argomentato. A partire dagli anni Cinquanta-Sessanta l’antropologia negli Stati Uniti si era molto estesa come campi di ricerca ed aveva subìto una forte diversificazione al suo interno. Ma dai primi anni Settanta si manifestava progressivamente, come già notato, una contrarietà nei confronti delle visioni “oggettive” (e “positivistiche”) della disciplina e l’uso del termine “scienza” si attenuava progressivamente. Si manifestavano in molti modi tendenze verso la espressione di giudizi, verso forme di “impegno aperto”, e spesso anche di “partigianeria”. Un insieme di temi si fece centrale in buona parte delle nuove ricerche: il conflitto sociale, l’ineguaglianza, le forme di dominazione, oppressione, resistenza, violenza. Discussioni sulla “razza”, sul genere, sulla sessualità, sul corpo, sulle identità, assunsero progressivamente una posizione dominante. Ma si manifestò anche, inesorabilmente, una sorta di “cultura della auto-accusa e del dubbio su di sé”, che condusse lentamente alla ricerca degli “antropologi-malfattori” e degli errori gravi del passato.

18Le cause “esterne” all’antropologia, riguardanti la società americana più in generale, sono state indubbiamente la guerra in Vietnam, le lotte per i diritti civili, lo sviluppo del femminismo. Gli studenti delle Università erano tra coloro che, per primi, manifestarono sfiducia e forti dubbi su ciò che i docenti, di generazioni precedenti, proponevano loro. Ma si produsse anche una forte influenza di movimenti “anarco-surrealisti”, di autori come Foucault, e della “contro-cultura” che si diffuse in quegli anni. Anche lo stile della dissidenza era nel frattempo mutato. Non più sit-ins e dimostrazioni pacifiche, ma molte occasioni di violenza esplicita. E un carattere molto diffuso era quello della cosiddetta “ermeneutica del sospetto”, della ricerca incessante di “colpevoli”. La ricostruzione delle riunioni della American Anthropological Association da Boston del 1953 a Chicago, Atlanta e Washington del 2003-2005, mostra con chiarezza l’impressionante cambiamento e opposizione tra i temi classici dell’antropologia tradizionale (temi culturali ed aree culturali-geografiche) e quelli degli anni 2000 (“Sofferenza”, “Divisioni”, “Disordini”, “Vittime”, “Gruppi Subalterni”, “Violenze”, “Demistificazione delle Politiche”, “Sfide all’antropologia della regione X”, “Auto-determinazione di popoli”, “Anti-Imperialismo”, e così via). Ma questo aperto distacco dai temi-problemi e dalle teorie-metodi dell’antropologia tradizionale determinò anche l’emergenza di nuovi orientamenti che presto ebbero grande successo, anche al di fuori degli Stati Uniti: l’orientamento “interpretativo-riflessivo”, il “de-costruzionismo”, la radicale attenuazione dell’importanza dell’autore, la “crisi della rappresentazione”, infine “l’assalto critico al field-work e all’etnografia”, intesa come fondamento e priorità assoluta del lavoro antropologico. Libri come quello di Edward Said sull’“Orientalismo” costituirono un grande stimolo per le critiche alle “visioni degli altri” da parte di osservatori euro-americani. Ma è importante ciò che osserva in proposito Lewis: «la trasformazione dell’antropologia è stata motivata da stimoli etici e politici, piuttosto che da modificazioni in un paradigma “normale” di una scienza secondo il modello di Kuhn» (Lewis 2009: 219). La cosa interessante da notare è che queste modificazioni nell’antropologia erano in genere tratte dai lavori di autori, pensatori esterni all’antropologia (filosofi, politologi sociologi), completamente ignari, o non particolarmente interessati, alle analisi empiriche sulle diversità esistenti tra le varie società dell’uomo, nella storia e nei diversi continenti.

19Dello stesso anno 2009 è un intervento di Melissa Checker (Anthropology in the public sphere), che costituisce ancora un ulteriore esempio di riconoscimento, da parte di antropologi americani, dei grandi cambiamenti che si sono verificati nei nuovi temi di maggiore interesse fra i giovani antropologi di quegli anni: i fenomeni delle guerre e della pace, il cambiamento climatico, i disastri provocati da alterazioni naturali, industriali, e da iniziative di sviluppo distruttive, il problema del rispetto dei diritti umani, le disparità nelle cure della salute, i rapporti tra le razze e l’equità negli Stati Uniti.

20Un interessante saggio di Stuart Kirsch introduce un ulteriore esperimento di discussione collettiva sulla “antropologia impegnata” (Experiments in engaged anthropology, 2010), che questa volta comprende un gruppo di vivaci saggi scritti da giovani studenti di Dottorato che presentano i primi risultati delle loro ricerche di campo orientate nel senso dell’impegno social-politico del ricercatore. Kirsch esordisce affermando che tutti i saggi raccolti in questa iniziativa hanno come punto di riferimento la “giustizia sociale” e la identificazione e messa in pratica dei benefici sociali di progetti nei quali la ricerca antropologica è politicamente rilevante, utile, e capace di produrre effetti sociali positivi. Per il coordinatore dell’iniziativa è importante registrare le trasformazioni avvenute nei movimenti sociali e politici, nei movimenti di protesta negli Stati Uniti degli ultimi decenni, caratterizzati da enfatici rituali pubblici che hanno arricchito le forme di comunicazione sociale. Ma anche s’è verificato un cambiamento significativo: i sentimenti politici di ribellione e critica sociale aperta si sono spesso convertiti in modi di azione non direttamente politica. Infatti, si sono sviluppate molte iniziative di “consumo verde”, di “commercio equo e solidario”, di “ambientalismo militante”. La frammentazione dei movimenti politici contemporanei ha in parte coinciso con una sorta di declino delle forme collettive di politica per grandi numeri, con la creazione di gruppi basati sulla “identità” e su interessi divisivi piuttosto che non estesamente solidaristici. E inoltre, Kirsch nota che la maggior parte degli antropologi professionalmente affermati hanno mutato i loro orientamenti, verso l’impegno politico, ri-orientando le loro ricerche ritornando sul campo molti anni dopo le prime indagini. Invece, i saggi dei giovani studenti di Dottorato inclusi nella raccolta da lui coordinata, si propongono fin dal piano preliminare di ricerca di incorporare i problemi e le finalità politiche all’interno del progetto di field-work, dando quindi un carattere “sperimentale” alle loro iniziative, e prevedendo – anche – certi “rischi” nelle loro ricerche. L’etnografia-come-attivismo è il quadro teorico-metodologico che ne risulta. Un obiettivo condiviso da molti è quello della “conoscenza prodotta dai movimenti sociali”, da attori sociali locali non-accademici, in un quadro di ricche forme di reciprocità e di innovazioni metodologiche; in tal modo si dovrebbero produrre nuovi tipi di conoscenza non diversamente ricavabili. Il fine ultimo sarebbe quello di creare una pratica disciplinare socialmente responsabile, con un orientamento più vicino alla “prassi”.

21C’è anche da richiamare un breve saggio di Pat Caplan del 2014, che arricchisce il dibattito americano sull’ “impegno” in un campo specifico, quello della “consulenza” (Engaging the ‘Engaged’ Anthropology). L’autrice nota che le responsabilità morali devono essere, in questo campo, ben chiare e pressanti. Infatti, l’antropologo può investigare aspetti del potere e porsi domande che altri non si pongono. Tutto dipende, naturalmente, dai “Termini di Riferimento” della consulenza sottoscritti con la Agenzia di Sviluppo o con la Organizzazione contrattante, che devono essere ben esaminati e posti in discussione dal consulente. È importante che il consulente sia in grado di seguire tutto l’arco temporale del progetto o iniziativa e non semplicemente il tempo circoscritto della sua consulenza. Il pre-progetto, il controllo detto “monitoraggio” delle attività, la valutazione ex-post, e gli effetti secondari ed estesi nei tempi medio-lunghi, saranno quindi importanti. E nel caso di iniziative con gruppi associativi organizzati (le famose ONG locali che si sono negli ultimi anni moltiplicate) sarà necessaria un’analisi socio-culturale della organizzazione menzionata e dei suoi rapporti con la società locale più ampia. E, per esempio, nel caso di iniziative riguardanti la posizione femminile in una certa società, sarà ovviamente fondamentale includere tra gli oggetti di ricerca anche la condizione e il ruolo maschile. E nei confronti dei conflitti sociali bisognerà assumere una disposizione attenta e comprensiva, giacché il conflitto è una parte inevitabile dei processi di cambiamento sociale.

22Infine, al già citato Stuart Kirsch dobbiamo anche un corposo volume del 2018, che sintetizza e commenta con ulteriori osservazioni le “nuove forme di ricerca etnografica” dell’ultimo decennio, che introducono luoghi di ricerca ed interlocutori locali insoliti per l’antropologia tradizionale, propongono temi alternativi di ricerca e generano nuovi tipi di approcci allo studio antropologico (Engaged Anthropology: Politics beyond the text). Il nucleo centrale delle argomentazioni dell’autore consiste nel fatto che la sua “antropologia impegnata” si basa su una riflessività che va molto “oltre il testo”, cioè oltre ciò che gli antropologi scrivono, e si incentra sulle “azioni”, sugli interventi dell’antropologo in relazione con, e in collaborazione con, i “progetti di coloro che egli studia”; in tal modo «la ricerca non è altro che parte di un mondo sociale condiviso con i nostri soggetti», il che comporta delle forti obbligazioni di reciprocità. L’autore nota però anche che vi sono dei rischi, delle sfide, delle complicazioni e anche contraddizioni nella ricerca così “impegnata”. E si lamenta che a questi temi come la ricerca della “giustizia sociale” e l’attivismo sociale, che possono comportare forme di vulnerabilità, di errore e di conflitti, non sia stato dato nella letteratura corrente il posto che meritano. Senza insistere nella corrente contrapposizione tra la ricerca “puramente accademica” e le forme di impegno politico-sociale in antropologia, Kirsch sottolinea più volte la necessità della analisi istituzionale delle agenzie politico-economiche che sono impegnate nella trasformazione sociale delle comunità marginali del mondo contemporaneo. Nella seconda parte del volume l’autore descrive ed analizza con accuratezza le sue numerose esperienze di “antropologo impegnato”: 1. Una ricerca applicativa e politicamente impegnata sui gravi processi di contaminazione provocati da una grande miniera di rame e d’oro nelle montagne della Nuova Guinea, che ha anche comportato la intensa partecipazione alle controversie giuridiche contro i proprietari australiani della grande miniera; 2. Un impegno pluriennale con una lunga ricerca e collaborazione con diversi gruppi di Papua rifugiati ed esiliati della Nuova Guinea Occidentale; 3. Una quantità di studi di caso e di interventi nella stessa Nuova Guinea, destinati a progetti di conservazione ambientale e di sviluppo non distruttivo; 4. Un contributo giuridico nelle controversie contro una compagnia mineraria vicino alla capitale delle Isole Salomone, incentrato particolarmente sulla intensa discussione giuridica dedicata alla natura e ai caratteri dei diritti di proprietà; 5. L’impegno come consulente del Tribunale Anti-nucleare delle Isole Marshall, riguardante la ri-locazione di numerosi gruppi indigeni esposti alle radiazioni susseguenti agli esperimenti dei militari americani degli anni Cinquanta; 6. La partecipazione attiva, con archeologi e antropologi fisici, ai dibattiti ed alle iniziative riguardanti la “restituzione” dei resti umani dei Nativi Americani alle comunità di origine; 7. L’impegno nella produzione di due testi analitici sul tema dei diritti sulle terre degli indigeni, presentati alla Inter-American Commission ed alla Corte Inter-Americana dei Diritti Umani, e riguardanti alcune terre indigene del Surinam ed i titoli sulle terre degli Akawaio della Guyana. Come si vede, sono tutti esempi molto accettabili di soft engagement – anche perché fondono bene la ricerca con gli obiettivi dell’ “impegno” – e abbastanza lontani dalle critiche aggressive e radicali che in molti casi contemporanei accompagnavano ricerche per solito superficiali e approssimative.

23Bisogna notare che questa carrellata di riferimenti ad alcune delle pubblicazioni specifiche provenienti dal mondo statunitense, e dedicate al tema della engaged anthropology, mostra con tutta evidenza una serie di posizioni sostanzialmente equilibrate, attente a presentare una documentazione storica ed a descrivere concrete esperienze di ricerca in situazioni socio-politiche difficili, che impongono al ricercatore un “impegno” spesso non facile. Ed è apparso anche chiaro l’orientamento etico e politico a favore di una “giustizia sociale” che raramente trova posto nelle situazioni di marginalità politica. Così anche, a tratti, è apparsa la consapevolezza che la dominazione, lo sfruttamento economico-politico, le azioni repressive e il rifiuto di tutela dei diritti umani, da parte dei soggetti sociali dominanti, deve generare una attenta analisi socio-culturale dei processi di potere, oltre che lo studio di strategie e tecniche per attenuarli, e oltre alla fondamentale attitudine informativa-formativa nei confronti dei soggetti sociali discriminati.

24Ma esistono anche, nel mondo americano e pure in Europa, posizioni più radicali, semplificatorie, aggressive e poco documentate che si basano essenzialmente su accuse che vengono il più delle volte raffigurate più come “colpe” che non come errori, violazioni di norme, cecità nei confronti dei diritti degli altri. Questi orientamenti si sono concentrati, per esempio, più sulle “colpe degli antropologi” dell’età coloniale che non sulle responsabilità politiche in azioni concrete da parte delle autorità coloniali, che raramente vengono analizzate in senso “istituzionale”, come abbiamo più volte notato, con una attenta ricerca socio-antropologica. Autori come K. Gough, T. Asad, D. Lewis, G. Gjiessing, D. Berreman, L. Nader, D. Anderson. J. Banaji, D. Goddard, J. Faris, e anche in parte N. Sheper-Hughes, si sono impegnati in critiche rapide e radicali. Ma è stato pubblicato anche un accurato e molto documentato volume da parte di Herbert S. Lewis in “difesa dell’antropologia” dai suoi aggressivi critici (In defense of Anthropology, 2013).

25Altri orientamenti radicali, ipercritici, hanno acquistato recentemente uno spazio nelle discussioni sulle scienze sociali, in particolare anche in Italia. Uno dei più aggressivi e radicali di questi orientamenti ha scelto recentemente la “critica radicale allo Stato” come forma sociale sui generis e oggetto di costante attenzione critica. È questo il tema che ha impegnato qualche anno fa Fabio Dei nel suo saggio Di Stato si muore? Per una critica dell’antropologia critica, contenuto nel volume curato da Dei e da Caterina Di Pasquale, Stato, violenza, libertà. La ‘critica del potere’ e l’antropologia contemporanea (2017). Il saggio presenta considerazioni molto accettabili e accurate, in un linguaggio ironico che spesso prende in giro i sostenitori delle perversità dello “Stato Diabolico” in forma provocatoria. Stigmatizza i “caotici bricolage intellettuali” dell’antropologia radicale, che frequentemente mostra un esibizionismo caratterizzato da un gergo esoterico, autoreferenziale, sterile. La caratteristica comune a questi studi è la ispirazione continua da idee generali, proposizioni sintetiche e formule teorico-filosofiche, spunti di rapida sintesi di fenomeni umani contemporanei e del passato, che vengono dai filosofi e dagli antropologi-filosofi come Nietzsche, Lacan, Heidegger, Foucault, Benjamin, Deleuze, Latour, Agamben, Bourdieu; ma raramente usano queste suggestioni critiche per illuminare e approfondire l’analisi specifica della documentazione storica ed etnografica di popoli circoscritti, di fenomeni storico-sociali particolari e così via. In questi contributi a una “teoria dello Stato” viene continuamente posto in evidenza un “potere impersonale”, sempre repressivo ed a carattere “materiale”, raramente connesso – come in realtà lo è – con reti di significati, idee e valori. E soprattutto non si conducono specifiche analisi sulle “istituzioni”, le “funzioni”, le produzioni retoriche specifiche, che le forme statali costruiscono attraverso processi storici densi e continui, e che naturalmente producono e mantengono in vita varie forme di disuguaglianza. Insomma, il saggio in conclusione invita a distinguere nettamente tra gli strumenti necessari ad un intervento politico che faccia breccia nella società, e dall’altro canto la necessità per l’antropologia di analizzare e comprendere, attraverso un accurato lavoro di campo, i processi sociali e politici di un contesto dato, le strutture del senso comune, il sentire popolare diffuso, anche quando non ci piace. Direi che una integrazione delle discussioni sullo Stato e le sue caratteristiche istituzionali, funzionali e “invasive” nei confronti dei cittadini dovrebbe passare per una analisi della recente ricca letteratura socio-antropologica sul tema, a partire dal vecchio libro di Abelès del 1990 ai più recenti volumi di Sharma e Gupta del 2006, di Lenhard del 2013, di Thelen, Vetters e altri del 2017, ed anche dai saggi di Shu-Yuan Yang del 2005, di Bouchard del 2011, di Bernstein e Metz del 2011, e infine di Annavarapu e Levenson del 2021. Questa consistente bibliografia, se ben esaminata, credo che consentirebbe di dare uno sfondo ben più intenso alle discussioni sul volume di Fabio Dei. Ed alla opposizione radicale tra “critici” ed “anti-critici”. Va detto, comunque, che ci sono state critiche abbastanza serrate e forse eccessive al saggio di Dei, il quale ha risposto con una notevole efficacia. Il dibattito che si è sviluppato in parte sulla rivista Il Lavoro Culturale a partire dal 2018 ha coinvolto non solo Dei, Boni e Di Pasquale, ma anche Allovio e Favole, Belardinelli, Cutolo, Saitta, Sorce, Mugnaini, Palumbo, Deiana. Le critiche più severe sono venute da Stefano Boni, Pietro Saitta e Armando Cutolo. Molte discussioni hanno anche tenuto conto del libro di Ferdinando Fava, In campo aperto. L’antropologo nei legami del mondo, del 2017, e del saggio, Le interazioni sul campo e l’implicazione di Gérard Althabe, del 2011. In anni recenti, inoltre, sono apparsi saggi interessanti, di valutazione più attenta ed equilibrata del contrasto di opinioni tra i “critici” e gli “anti-critici”; tra di essi considero i migliori quello di Armando Cutolo (“Riflessioni e risposte alla critica dell’antropologia critica”, del 2021) e quello di Berardino Palumbo (“‘Fata Morgana’: ancora su strabismi e asincronie”, del 2021). Sarebbe interessante e molto utile ricostruire accuratamente e dettagliatamente l’intero e intenso dibattito; dobbiamo purtroppo rimandare l’impegno ad un’altra occasione.

26Bisogna sottolineare che queste ricche e interessanti discussioni hanno dedicato una specifica attenzione anche alla cosiddetta “antropologia militante”, che ha suggerito in varie forme una stretta fusione, e necessaria, tra analisi antropologica attraverso etnografie accurate, e impegno diretto del ricercatore a sostegno delle rivendicazioni degli attori sociali marginali. Infatti, le ricerche alle quali si fa riferimento si svolgono in contesti difficili e in parte rischiosi (movimenti sociali dissidenti, zone sociali di sofferenza e di discriminazione, aree caratterizzate da lotte sociali in difesa dalla distruzione ambientale, gruppi di immigrati irregolari, gruppi di donne impegnate in lotte aspre per ottenere la parità di genere, gruppi familiari che lottano per riconquistare il diritto ad avere una abitazione dopo essere stati dislocati, e così via). Su questi temi è stato pubblicato recentemente un ottimo libro che fa il punto sull’intera questione della “etnografia militante”, con ricchezza di documentazione, capacità critica nell’identificare aporie, difficoltà, contraddizioni in buona parte della letteratura corrente, e pieno di suggerimenti e proposte ragionevoli, equilibrate, ben argomentate (Stefano Boni, Alexander Koensler, Amalia Rossi, Etnografie militanti. Prospettive e dilemmi, del 2020). Un ricco volume che si conclude con tre capitoli nei quali ognuno dei curatori illustra in dettaglio il proprio impegno di ricerca sull’attivismo di diversi movimenti sociali, inquadrato nell’ambito della etnografia intensa militante. Nel volume viene messa bene in evidenza la assoluta centralità di una intensa e continua etnografia come «strumento potente nel contrastare le mistificazioni e banalizzazioni delle rappresentazioni massmediatiche e le semplificazioni e virtualizzazioni dei socialnetwork» su temi riguardanti i movimenti sociali contemporanei. Si riconosce la varietà possibile del connubio tra militanza socio-politica e ricerca etnografica, e si sottolinea il fatto che il ricercatore politicamente impegnato, in processi di “ricerca-azione”, non ha la funzione di “dare consigli” agli attori sociali, ma quella di “fornire strumenti di analisi”. E non è necessaria una identificazione tra ricercatore e soggetti studiati, né la ricerca militante deve assumere un ruolo di “guida” o di rappresentazione pubblica delle mobilitazioni socio-politiche. Viene anche notato il fatto assai frequente della esistenza di posizioni contrarie alla presenza di ricercatori, nei gruppi sociali antagonisti, che inoltre in molti casi presentano aperte divisioni al loro interno, nelle quali il ricercatore può rimanere invischiato. In questo bel volume, l’unica cosa che avrei attenuato è il frequente riferimento al ruolo esclusivamente “contemplativo” e accademico della ricerca non militante e alla sua attitudine a volte “puramente estrattiva” di dati e informazioni. Né mi pare da condividere l’osservazione che «l’antropologia applicata è spesso gestita in maniera gerarchica e pre-determinata, mentre le etnografie militanti mirano esplicitamente ad essere collaborative, dialogiche e polifoniche». In realtà, i casi di antropologia applicata misuratamente “militante”, e collaborativa, dialogica e polifonica, sono assai numerosi, oggi. Infine, forse sarebbe stato opportuno criticare più duramente le diverse posizioni anti-accademiche che spesso sono eccessive (a favore della “dissoluzione del sapere esperto”, considerazione della ricerca accademica come “spreco di risorse”, giudizio della “inerzia autoreferenziale del mondo accademico”). Non che fenomeni del genere non si verifichino nel mondo universitario, ma bisogna sottolineare che oggi sono molto più rari che nel passato.

27In conclusione, bisogna dunque osservare che la “sospensione del giudizio” nei tempi corti della ricerca, e la sua riserva per i tempi medio-lunghi, è opportuna e forse necessaria. L’approfondimento etnografico sul cambiamento sociale e la intenzionalità trasformativa dell’antropologo sono allora le basi per iniziare una attenta programmazione della engaged anthropology. La riflessività dialogica e processuale ne sarà, conseguentemente, un elemento indispensabile. Alcuni casi dall’antropologia dei processi di sviluppo possono illustrare questo orientamento. Nulla, infatti, esclude che l’antropologo possa essere un consulente fortemente “critico” delle istituzioni e dei gruppi di “tecnici” che programmano ed eseguono iniziative di cambiamento socio-culturale pianificato: ci sono infatti molti risultati positivi di questo tipo di consulenze, anche se non si possono nascondere certi limiti.

28Un accenno andrebbe fatto anche all’antropologia collaborativa, che in forme prudenti e negoziali ha per lungo tempo, negli Stati Uniti, promosso un costante e intenso lavoro comune tra gli antropologi orientati applicativamente e certe istituzioni responsabili della promozione sociale, economica e politica di gruppi umani marginali e marginati. In particolare, i lavori di L. E. Lassiter del 2003 e del 2008, rappresentano bene questo orientamento nei confronti di un “impegno misurato” della ricerca antropologica. Ma l’idea della “collaborazione” paritaria come caratteristica fondamentale della produzione della conoscenza antropologica non riguarda solo il rapporto con le istituzioni; riguarda soprattutto lo scambio paritario tra il ricercatore e i suoi “informatori”, che spesso – nell’antropologia moderna – sono anche divenuti “co-autori” dei libri degli antropologi. Il tema dell’informatore come guida, spesso traduttore e collaboratore stabile e continuo del ricercatore d’origine esterna, ha una sua ricca letteratura. In Italia un ottimo libro dedicato a questo argomento è quello a cura di Ugo Fabietti, Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell’identità, del 1998. Un’ampia analisi di casi diversi di rapporto tra famosi antropologi e informatori, il rapporto tra dialogica, collaborazione e scrittura, la casistica di rischi, paradossi e malintesi nel rapporto tra i ricercatori e i testimoni privilegiati, il rapporto tra rappresentazioni indigene e rappresentazioni di origine esterna, il rapporto generale tra esperienza etnografica e interpretazione, sono bene affrontati in questo volume, che naturalmente sfiora continuamente il problema del “coinvolgimento” del ricercatore in rapporti intensi con il gruppo locale studiato, problema che può generare forme intense di “impegno sociale e politico”. E sarebbe pure opportuno fare riferimento alla cosiddetta “antropologia indigena”, proveniente da indigeni che a volte posseggono una formazione universitaria specifica, e che hanno sottoposto a consistenti e spesso radicali critiche i lavori di molti antropologi “occidentali”. Basterà ricordare, in proposito: K. Narayan, How native is a ‘native’ anthropologist?, del 1993; L. Jacobs-Huey, “The natives are gazing and talking back”, del 2002; S. Kirsch, Reverse anthropology: indigenous analysis of social environmental relations in New Guinea, del 2006; e infine F. Lisaclaire Uperesa, A different weight: tension and promise in ‘indigenous anthropology’, del 2010. Per completare il quadro del dibattito internazionale sulla engaged anthropology si dovrebbe fare riferimento anche ai saggi di Roger Sanjek (2004), Louise Lamphere (2004), Jonathan Spencer (2010), Paul Sillitoe (2015).

29Vorrei concludere facendo un breve riferimento ad alcuni esempi del mio personale modesto impegno “politico” a favore degli indigeni, nella mia esperienza etnografica tra gli Shuar e Achuar dell’Ecuador, e fra i Kogi e gli Aruaco della Sierra Nevada de Santa Marta (Colombia); si tratta, in verità, di una serie di “impegni di livello ‘soft’”, che convivevano con l’attività dominante costituita dalla ricerca socio-culturale della analisi e comprensione delle radici dei conflitti, della raccolta dei “punti di vista” della popolazione locale sul passato e sul possibile futuro della regione, e infine dei rapporti – materiali e non materiali – tra gli indigeni, i meticci, i bianchi in generale e le istituzioni pubbliche del Paese.

30Il primo caso è quello dell’impegno continuo nell’osservazione e partecipazione alle riunioni della Assemblea e dei dirigenti della Federazione dei Centri Shuar, che ha comportato la registrazione delle trasformazioni, nel corso degli anni, nelle pretese e proposte formali al governo, ai missionari e ai militari, da parte dell’organizzazione indigena. Il tema centrale era quello della recente occupazione delle terre da parte dei coloni bianchi e meticci, per il quale furono da me utilizzati gli efficaci argomenti giuridico-politici, facendo continuo riferimento ai documenti delle Istituzioni Internazionali e alle leggi nazionali e suggerendo le forme adeguate per ottenere risposte positive dalle istituzioni. Ho sempre usato una assoluta “sincerità” e “trasparenza”, sostenendo costantemente i miei personali punti di vista tratti da una esperienza di lungo termine in situazioni simili e dalla mia formazione giuridica, anche quando essi non coincidevano con quelli della maggioranza degli associati o con quelli dei dirigenti della Federazione. Raccoglievo con attenzione e rispetto le opinioni contrarie e contro-argomentavo, spesso, solo quando avevo documentazioni di supporto che fossero ineccepibili.

31Un altro caso è quello degli interventi molto energici effettuati nei confronti del Ministero dell’Educazione, a favore della introduzione, nelle scuole indigene dell’Amazzonia Ecuadoriana, della “Educazione Bilingue e Bi-culturale”, con successo. Anche sulla base delle ricerche e dei lavori pubblicati da un gruppo di antropologi italiani sul tema in numerosi Paesi dell’America Latina. Ne è risultata una consistente riforma non solo dei contenuti dei corsi, ma anche nello stile dei rapporti tra insegnanti e scolari, e nella moltiplicazione (attraverso corsi specifici di formazione, alla definizione dei quali fu dato un intenso contributo) dei maestri provenienti dalla stessa società indigena.

32Un ulteriore caso, molto impegnativo, è quello della controversia tra i militari ecuadoriani e un gruppo di indigeni Achuar, a proposito della uccisione di uno sciamano accusato di stregoneria. Il mio intervento in questa occasione fu decisivo per sostenere l’esistenza di una forma di azione “para-giuridica” condivisa dalle diverse comunità, e la inapplicabilità, nelle condizioni di quel momento, del diritto dello Stato, che del resto non aveva alcuna presenza nelle regioni marginali della foresta amazzonica. La pressione, molto argomentata, nei confronti dei militari del Posto militare di Taisha, che sollecitati da alcuni familiari dell’ucciso spingevano verso l’incarcerazione dell’uccisore, si è conclusa positivamente con un “non luogo a procedere”, in attesa della proposta “compensazione” a favore della quale fu speso un intero mese di colloqui, che si basavano soprattutto su casi precedenti e su soluzioni previste dai costumi tradizionali degli Achuar, in sostituzione della vendetta o della incongrua e inaccettabile (per gli indigeni) incarcerazione.

33In un contesto diverso, ho effettuato un continuo sostegno e una attività di pressione socio-politica nei confronti delle diverse autorità istituzionali, nel caso dell’ inquinamento ambientale provocato da una centrale a carbone e dai rifiuti gettati nei fiumi, che dimezzavano la pescosità delle lagune della costa della Guajira in Colombia, abitate e sfruttate dagli indigeni Wayuu; gli effetti positivi del lungo lavoro di pressione sui poteri civili e militari locali perché si diffondesse un forte controllo dell’inquinamento dei fiumi e delle lagune, furono consistenti, seguendo anche i suggerimenti e le considerazioni pratico-metafisiche dei Mama (“sacerdoti-sciamani”) degli indigeni Kogui che abitavano nei contrafforti della Sierra Nevada de Santa Marta (che incombevano dall’alto sulla costa e sulle lagune), i quali sostenevano ripetutamente e con forza che ci fosse una stretta e pericolosa “corrispondenza” tra le lagune inquinate della costa e le lagune sacre dell’alta montagna (a circa 3.500 metri di altezza).

34Gli esempi brevemente presentati hanno la semplice funzione di rappresentare dei casi di “impegno politico limitato”, che possono e forse debbono sempre accompagnare l’attività di un ricercatore antropologo, anche se non costituiscono, di fatto, esempi di “militanza politica” in senso stretto. Sono convinto che, in ogni caso, il lavoro di ricerca dell’antropologo debba sempre includere forme, anche limitate, di sostegno social-politico alle condizioni complessive nelle quali si trovano i gruppi sociali studiati. Ma credo sia importante sottolineare il fatto che i migliori risultati, in ogni caso, si possono ottenere solo se il ricercatore si impegna in una intensa etnografia, in tempi medio-lunghi e con effettiva convivenza intensa con i gruppi sociali locali. La ricchezza e intensità del materiale documentario prodotto saranno dunque il migliore strumento per comprendere a fondo i punti di vista e gli interessi locali, e agire conseguentemente trasformando possibilmente un denso e ricco sapere in un intenso ed efficace fare.

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Notizia bibliografica digitale

Antonino Colajanni, «Militanza, “impegno” e critica sociale dell’antropologia sulla base di intense etnografie. Le intenzioni trasformative e i giudizi politici dell’antropologo»Archivio antropologico mediterraneo [Online], Anno XXVI, n. 25 (1) | 2023, online dal 24 juin 2023, consultato il 22 mai 2025. URL: http://journals.openedition.org/aam/6591; DOI: https://doi.org/10.4000/aam.6591

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