Per la maggior parte delle persone un muro di cinta è solo un muro di cinta, mattoni e malta, autosussistenza verticale in cui non c’è proprio niente da capire. La realtà del muro si dimostra da sola in un mondo come il nostro, che si immagina sicuro solo nella misura in cui è perimetrato. Ecco perché la gente non ha niente contro i muri di cinta; anzi. […] Per riconoscere una trama di violenza in un muro di cinta occorre uno sguardo non consueto, che sia insieme ferito e consapevole della sua ferita (Murgia 2012).
1Sono passati oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino (1989) e, paradossalmente, questo evento sembra avere dato inizio all’epoca della costruzione di nuovi muri un po’ dovunque. Quando il muro fu abbattuto, le recinzioni erano solo 16; negli ultimi quarant’anni, quasi un terzo delle nazioni al mondo ha costruito una barriera per separarsi da qualcosa o qualcuno. Secondo la studiosa canadese Elisabeth Vallet (2018) ci sarebbero oggi nel mondo circa 75 «muri» che chiudono circa 40 mila chilometri di frontiere su un totale di 250 mila chilometri di confini fra gli stati, a cui si aggiungono quelli marini. Tanto in Europa come negli altri continenti, la costruzione di muri ha principalmente lo scopo di controllare i flussi di migranti e rifugiati. Benché lo studio dimostri la loro inutilità in termini di funzionalità reale e il loro considerevole costo anche in termini di manutenzione, sorveglianza e impatto ambientale, essi sono in continuo aumento.
- 1 I video sono pubblicati nel seguente sito: https://vimeo.com/814658618
- 2 Claudio Larcher era project leader del progetto, Sebastian Camerer si occupava di digital design, m (...)
2Cinque video sperimentali esplorano il paesaggio urbano e le sue mura nella città di Bolzano1. Il lavoro, realizzato negli anni 2014/2015 da un gruppo di studenti e docenti2 all’interno del corso “Illegal Design - Urban Walls” alla Facoltà di Design e Arti di Bolzano, si inserisce in uno spazio di ricerca e interesse che nutro da tempo per i processi di insegnamento come “apprendimento in pratica”, qui declinati negli ambiti della cultura materiale e dei processi di progettazione sociale, e in cui i “discenti” partecipano in veste di co-apprendenti esperti (Bonetti 2020a: 268). “Urban Walls” unisce apprendimento formale, informale e non formale in considerazione che ogni forma di apprendimento non avviene in luoghi separati ma fortemente interconnessi. A ciò si aggiunge la dimensione politica dell’insegnamento: è necessario, infatti, che l’azione pedagogica si innervi politicamente, perché solo partendo dal coinvolgimento diretto dei soggetti ci può essere una sensata ricerca educativa. Attraverso le esperienze condotte in prossimità dei muri della città, l’azione oggetto della nostra riflessione consente ai/alle giovani ricercatori e ricercatrici di essere coinvolti/e nella progettazione e attuazione di processi trasformativi (Engeström 2016, Sannino et al. 2016). Si tratta di un apprendere mai lineare, bensì orientato a intervenire in modo conflittuale e trasformativo su reti di soggetti e di artefatti culturali, cognitivi e materiali.
3I muri e le cose che ci circondano nel quotidiano costituiscono veri e propri setting di apprendimento e sono al contempo luoghi straordinari di osservazione etnografica (Bonetti 2019, 2020a). Pervasivi e onnipresenti come sono, essi assumono quelle caratteristiche che Pierre Bourdieu aveva a suo tempo indicato come “umiltà delle cose”. Tale apprendimento supporta ciò che lo studioso in “teoria della pratica” indica come
quei sistemi di disposizioni durature, strutture strutturate predisposte a funzionare come strutture strutturanti, vale a dire in quanto principio di generazione e di strutturazione di pratiche e di rappresentazioni che possono essere oggettivamente ‘regolate’ e ‘regolari’ senza essere affatto il prodotto dell’obbedienza e delle regole [...]. Proprio allorquando appaiono determinate dal futuro, vale a dire dai fini espliciti ed esplicitamente posti di un progetto o di un piano, le pratiche prodotte dall’habitus in quanto principio generatore di strategie, che permettono di far fronte a situazioni impreviste e continuamente rinnovate, sono determinate dall’anticipazione implicita delle loro conseguenze, cioè dalle condizioni passate della produzione del loro principio di produzione cosicché esse tendono sempre a riprodurre le strutture oggettive di cui sono in ultima analisi il prodotto (Bourdieu 2003: 206-207; Liep 2001).
4Se Danel Miller, sulla scia di Bourdieu, afferma che meno siamo consapevoli della presenza degli oggetti, più potentemente essi riusciranno a determinare le nostre aspettative, dando forma alla scena e garantendo un comportamento appropriato (Miller 2013: 47), il corso di antropologia, congiuntamente a forme di ricerca applicata, ha inteso sperimentare modalità di apprendimento situato attraverso azioni considerate “non conformi” rispetto a un’idea di norma/normalità, per accrescere la consapevolezza proprio di quelle pratiche che solitamente regolano i nostri comportamenti e aspettative future.
5Le azioni messe in atto ci interrogano circa il ruolo costruttivo o distruttivo che gli oggetti possono giocare nei diversi ambiti relazionali, non solo come connettori ma anche come facilitatori, o dissuasori, di apprendimento delle grammatiche relazionali affettive/emozionali. La valenza pedagogica degli oggetti richiama pertanto il ruolo dell’antropologo che si esplica circa il come possa egli fungere da co-facilitatore e co-apprendente di tali processi conoscitivi situati ed esperienziali. Un come, che si renda esperibile attraverso pratiche concrete in grado di incidere, effettivamente, sulla consapevolezza come motore di trasformazione sociale.
6L’apprendimento situato, relazionale e compartecipato (Bonetti 2017, 2020a) si collega nel caso specifico a un’idea di apprendimento di terzo livello (Bateson 2010), il più complesso e difficile da realizzare. Ciò accade quando nel corso di un’esperienza ci si trova in situazioni altamente contraddittorie e conflittuali e si entra, pertanto, in quella dimensione di “doppio vincolo” in cui qualsiasi tentativo di soluzione appare fallimentare e senza via di uscita, poiché si inscrive in quegli “archi di possibilità” che diamo per scontati e dei quali non siamo consapevoli. Come dire: “abbattiamo i muri benché al contempo, pur senza volerlo, ci troviamo sempre a costruirne di nuovi”.
7Da un punto di vista fenomenologico il cambiamento di questi “archi di possibilità” corrisponde a uscire dalle cornici di cui siamo parte e che sono parte di noi, del nostro modo di vedere e di agire. Un buon osservatore, sostiene Bateson, deve saper riconoscere la differenza fra cambiare punto di vista entro un contesto dato per scontato, e cambiare – o “espandere” – quel contesto per concentrarsi sull’apprendimento di ciò che “non c’è ancora” e che transita tra i confini. Quando sperimento tale livello di apprendimento in aula, con l’ausilio di alcuni dispositivi, è facile per i partecipanti vederne alcuni indizi nell’emergere di nuovi interrogativi, atteggiamenti e forme di “devianza” che si accompagnano solitamente a uno stato d’ansia e di “resistenza emozionale”. Non essendo familiari, tali stati tendono ad essere quasi sempre automaticamente allontanati, stigmatizzati o rimossi, anziché accolti e ascoltati.
- 3 Sui temi della creatività e improvvisazione considero, in questo articolo, sia la posizione di John (...)
8L’apprendimento di terzo livello si fonda sull’imprevisto ed emergente, ed è quanto ci consente di non cadere in quelle false premesse (Ibidem 2010) che ci portano a ritenere che si possano pianificare e finalizzare consapevolmente idee e azioni per costruire la nostra umanità e consolidare il nostro conoscere (Hallam, Ingold 2007)3. Non va dimenticato, infatti, come diceva Gregory Bateson, che anche le epistemologie sbagliate funzionano: la logica, gran poco ecologica in cui viviamo, agisce proprio in virtù del fatto che la maggioranza delle persone riesce a vivere quotidianamente nella incoerenza tra ciò che afferma e ciò che concretamente fa, che ne abbia o meno consapevolezza. Il tema ci pone di fronte una questione epistemologica di estrema rilevanza e ci impone di «esaminare le nostre tattiche pedagogiche che in gran parte emuliamo dal nostro apprendistato nelle scuole» (Blum 2019: 644). Per praticare la convivenza e iniziare a confrontarci in modo meno distruttivo, è l’esperienza del confine a fare la differenza, l’incontro possibile con i limiti di ognuno.
9Nel progetto Illegal Design, come in altri corsi nei quali ho collaborato come docente di un gruppo interdisciplinare, il modello di lezione frontale – che mira all’apprendimento del processo di sviluppo di un progetto di product design – è sostituito da un altro approccio allo studio; i docenti svolgono lezioni individuali e condivise e gli studenti lavorano per sei mesi a un progetto comune nel loro atelier (Raffaetà 2020). Ognuno di loro individua una personale lettura del brief e lo sviluppa producendo un prototipo, possibilmente in scala 1:1, che alla fine si presenta come prodotto finito in una mostra – che equivale ad un esame accademico.
Questo permette ulteriori riflessioni sul progetto e le sue reali possibilità di sviluppo, che non verrebbero mai in evidenza se il progetto restasse solo su carta o con simulazioni di rendering al computer. L’esperienza diretta e “imparare facendo” permette allo studente di “scoprire” e sviluppare un proprio metodo progettuale, senza che vengano imposti degli standard metodologici preconfezionati e potenzialmente meno creativi: valorizzare la dimensione espressiva e lo sviluppo dell’autonomia dello studente, senza perdere mai di vista la responsabilità del risultato finale. Cercare di trasmettere agli studenti un approccio progettuale “sostenibile”, nel rispetto dell’impatto ambientale e con la consapevolezza delle proprie scelte di progetto (Larcher C., Milano, 08.03.23).
- 4 Alcune tematiche di “Illegal design” di cui si è occupato il corso sono state: oggetti disobbedient (...)
10“Illegal design” ha inteso porre in discussione regole e limiti quotidianamente imposti dalla società che condizionano le nostre scelte quotidiane e di cui non siamo pienamente consapevoli4. L’idea è quindi quella di provare a dare delle risposte concrete ad alcune domande: qual è il confine tra legale e illegale? Chi lo decide? Quante azioni “illegali” commettiamo al giorno? Possono alcune azioni illegali condurre a conseguenze positive per la società?
- 5 Ogni gruppo di lavoro doveva sviluppare un’azione a partire da un testo appositamente indicato sull (...)
11Per tale ragione il corso di antropologia ha inteso esplorare, in modalità esperienziale, specifici contenuti teorici della disciplina sul tema del confine5. Ulteriori domande sono state di conseguenza poste: in che modi i confini territoriali e simbolici influenzano il pensiero e il comportamento umano, e come individui e gruppi gestiscono e manipolano tali confini? Come possono essere utilizzate idee e oggetti per disobbedire, provocare e trasformare i confini?
12La messa in scena di una performance può essere vista come un utile di “esercizio di riscaldamento” in modalità condivisa e riflessiva e che trasforma l’aula in un setting di ricerca (Bonetti 2020b). Stare nell’esperienza è un’attitudine che va allenata per dialogare nella pratica con testi e teorie antropologiche, e non un obiettivo del corso come può essere percepito un compito o un esame finale. Si è trattato di penetrare nella complessità e profondità della disciplina persuasi che lo spazio possa essere analizzato come luogo praticato, agito e non solo strutturato (De Certeau 1983).
13Rapportarsi con le mura della città, nel corso del processo di insegnamento, è stato un utile espediente anche per affrontare il processo di studio e ricerca orientato alla restituzione finale del lavoro. Come declinare, ad esempio, sul terreno della pratica, concetti come quelli di separazione, distinzione, da un lato, e dall’altro di relazione, di connessione facendo sì che siano esperiti sia come realtà complementari sia come somiglianze discontinue? (Remotti 2022). Se l’umanità appare impegnata a costruire confini, compito dell’antropologia consiste non solo nello studio di come ciò avvenga e degli effetti che hanno sulla vita sociale degli esseri viventi (Fabietti 2000) ma anche delle strategie che è possibile adottare per attraversare e superare tali fratture. Mentre inizialmente le/i partecipanti vedevano i muri come spazi finiti, compatti, delimitati e delimitanti e come pareti fisse sulle quali non si sarebbe potuto fare nulla di più che scrivere o disegnare, l’esercizio è stato invece quello di iniziare ad ascoltarli e viverli – non più solo vederli – come luoghi di transito e di comunicazione.
14I muri, veri e propri oggetti di confine, hanno a che fare con dinamiche di inclusione ed esclusione, possono essere ignorati, aggirati, contestati, eliminati e divenire, al contempo, una straordinaria risorsa di relazione.
15Nulla di più facile che “abbattere/eliminare” i muri che si presentano davanti a noi nel corso della nostra vita. Più complesso, invece, dialogare con essi e considerarli risorse creative per esplorare nuove possibilità di contatto e comunicazione.
Attraverso questa esperienza abbiamo anche compreso quanto uno spazio fisico non sia necessariamente un limite, ma anche un'opportunità per creare qualcosa di nuovo: non solo una performance ma anche una risposta, uno rovesciamento, una novità che permette l'interazione tra i partecipanti (Gruppo 2, Bolzano, maggio 2015).
16«Non ci siamo accontentati di osservare e/o disegnare su una parete muraria; l’esercizio richiedeva di porsi in ‘relazione’ al muro, non solo come oggetto da guardare ma facendone esperienza come spazio abitato». L’attività sul territorio, seguita da momenti di riflessione in aula, ha accresciuto il potenziale di apprendimento attraverso il processo di scambio di idee e competenze, e ha permesso di sviscerare e agganciare concetti e teorie antropologiche che, a quel punto, si sono inserite appieno nell’esperienza viva e vissuta dei ragazzi.
17Sperimentare i limiti e le potenzialità dei muri, attraverso interventi provocatori, è stato certamente un primo passo per addentrarci in seguito all’interno di un tema complesso e dalle mille sfaccettature, dimostrandoci come sia impossibile tracciare una linea netta che divida ciò che è legale da ciò che invece non lo è. Benché tutte le mura scelte delimitino un luogo in cui vigono delle norme rigide e precise, si sono cercate soluzioni e strategie comunicative in grado di trasformare le regole dello spazio: si tratta di regole incorporate, che agiscono sul comportamento quotidiano delle persone in modo implicito. Del resto, tutto l’apprendimento implica che i confini (Engeström 2016; Lave, Wenger 1991) e gli oggetti sono entità che aumentano la capacità di un’idea, di una teoria o di una pratica di transitare attraverso cornici culturalmente definite.
18Come mostrano con evidenza i video realizzati dagli studenti, le transizioni possono essere intese come forme liminali altamente strutturate, ritualizzate e segnalate. Ma possono anche rappresentare l’ignoto: un passaggio da un terreno stabile, protetto e invalicabile a topografie meno certe, nuovi vernacoli e grammatiche non familiari. Le azioni di volta in volta poste in atto hanno facilitato il superamento degli ostacoli e delle chiusure, lo scioglimento delle resistenze al cambiamento, ampliando al contempo, in modo più consapevole, le potenzialità della comunicazione sociale.
19Lavorare in tale contesto ha consentito di approfondire e comprendere il concetto cardine del progetto, incoraggiando gli studenti ad affrontare il delicato equilibrio tra legale e illegale, lecito e non lecito, ‘giusto’ o ‘sbagliato’ in relazione alla società in cui viviamo e ai comportamenti che attuiamo quotidianamente, spesso in modo automatico e inconsapevole. Sono servite un po’ di audacia e, come ha dichiarato qualche studente, anche «la classica faccia di bronzo» per oltrepassare i limiti di azioni “lecite” che normalmente essi non avrebbero avuto né l’occasione né il coraggio di affrontare da soli. L’esperienza da loro vissuta durante il corso ha permesso di comprendere i modi in cui le “regole” esistono nella forma che conosciamo, perché hanno quel particolare impatto sulla realtà, quali conseguenze e quali azioni/gesti possono contribuire a produrre. Tutto ciò ci ha interrogati su come tanti comportamenti rimandino ad azioni e pensieri meccanici, a sicurezze e diritti mancati o che spesso diamo per scontati, e che, pertanto, vengono dimenticati e mai reclamati.
Abbiamo trovato entusiasmante e interessante la nostra esperienza: riteniamo sia utile e necessario creare nuovi contesti di azione perché, senza un salto al limite tra il “legale” e l’“illegale”, non sarebbe stato per noi possibile produrre nuovi punti di vista e contattare la nostra capacità di desiderare (gruppo 1, Bolzano, maggio 2015).
- 6 Sul trattamento dei dati personali, le persone citate hanno dato il loro esplicito assenso alla pub (...)
20Constanze Stürzer, Kazemaru Fujiwara e Chiara Zhu6 hanno scelto un muro con una particolare identità: si tratta del muro esterno, di cinta e filo spinato, del carcere di Bolzano (Foto 1). Si è riflettuto sull’area che questo muro caratterizza e che al contempo divide: la casa circondariale, infatti, si trova in una zona centrale della città prossima al museo di arte contemporanea ed è circondata da uno spazio verde dove le persone e le famiglie si incontrano, passeggiano con i loro cani e possono fare jogging. Gli edifici moderni che si trovano nella stessa area contrastano con l’aspetto fatiscente dell’edificio austro ungarico e sprovvisto di aree ricreative in cui i detenuti che hanno figli possano trascorrere del tempo con loro e fare insieme delle attività.
21Da un lato, quindi, troviamo una struttura/carcere che appartiene ad una realtà sociale e complessa di Bolzano, dall’altro uno spazio libero e ricreativo, al servizio dell’intera comunità. Benché si tratti di un’area centrale, il muro di cinta è posizionato in uno spazio incorporante una serie di connotati quali lo stato di isolamento e una certa tensione, quest’ultima evidenziata dalla presenza di guardie, di videocamere di sorveglianza e di segnaletiche. La segnaletica, benché ambigua, “parla” uno specifico linguaggio: quello ufficiale dello Stato che, attraverso indicatori, rende inequivocabile il divieto di avvicinarsi al muro. L’ambiguità di due segnali/messaggi – uno sul muro di cinta e l’altro posizionato direttamente sul prato – deriva dal fatto che entrambi non specificano in modo chiaro la distanza dal muro che le persone dovrebbero mantenere. Ed è proprio l’ambiguità delle segnaletiche, credute erroneamente intellegibili da chi le ha installate, che ha dato alle studentesse e agli studenti l’idea di “giocare” con le regole/norme che esse rappresentano e anche di sfidarle.
22Il gruppo ha quindi pensato di mettere in atto una serie di azioni provocatorie e di valenza simbolica caratterizzate da diversi tentativi di avvicinamento al muro e, pertanto, anche ai detenuti e alle sentinelle che risiedono al di là di esso. Tale avvicinamento non è stato effettuato solo fisicamente ma anche vocalmente. Attraverso l’uso della voce – l’atto di poter “urlare un saluto” in uno spazio pubblico – Chiara ha potuto “rompere” non solo la barriera fisica e distanziante del muro, ma anche quella più concettuale riguardante le convinzioni sociali e le abitudini personali di ognuno di noi:
Tendiamo a dare per scontate certe regole con le quali siamo cresciuti. Abbiamo l’abitudine a non fare determinati gesti, ad esempio nessuno di noi penserebbe mai di ‘urlare un saluto’ in uno spazio pubblico, specialmente verso una prigione. La reazione che ne è seguita è stata particolarmente forte e dirompente: un carcerato ci ha risposto in maniera civile con un saluto. La sensazione che ne è seguita è stata di leggerezza e molto positiva, forse siamo riusciti a scaldare la giornata di quella persona (Chiara, Bolzano, marzo 2015).
23Questo è stato il primo intervento di Chiara, Constanze e Kazemaru. In seguito, si è deciso di tornare più volte nelle vicinanze delle mura del carcere per provare a sperimentare diversi modi di comunicazione, sia diretti che indiretti:
- si è “giocato” ad avvicinarsi e a toccare la cinta muraria, ovvero a sfidare la proibizione espressa dai segnali;
- si sono utilizzati una serie di dispositivi, tra i quali altri segnali creati appositamente per l’occasione, per comprendere la forza e l’impatto dei simboli che essi rappresentano e dei significati che essi veicolano;
- si sono utilizzati rotoli di nastro rifrangente a strisce bianche e rosse per marcare porzioni di spazio antistante il carcere con l’obiettivo di porre in discussione e provocare i confini dichiarati e fissati dalle norme segnaletiche. La funzione dell’azione, concettuale e simbolica, così come il gesto di saltellare in modo giocoso al di là delle strisce per attraversarle, è stata un’azione provocatoria anche in relazione alle guardie di turno che erano in servizio all’esterno del carcere;
- è stata svolta, sempre in modo ironico e giocoso, una partita a tennis che ha avuto lo stesso obiettivo, ovvero quello di riflettere sul gesto compiuto trasmettendone un messaggio: quanto è illegale l’azione che si stava commettendo? E cosa può essere considerato veramente illegale?
24L’attività è stata molto coinvolgente e al contempo provocatoria, innescando momenti di riflessione condivisa e di intenso dibattito durante le ore di lezione in aula. Il gruppo che si è occupato del muro di cinta del carcere ha tentato di dare avvio anche a una ricerca sulle norme di carattere giuridico riconoscendo la complessità del tema trattato: «Abbiamo cercato gli articoli di legge che stabiliscono le distanze da mantenere rispetto ai muri di recinzione e di cinta. Si tratta di un ambito estremamente complesso e articolato che viene descritto dall’art. 878 del codice civile ma poiché la legge non ne fa un’ampia trattazione è alla giurisprudenza che si deve fare riferimento».
Il workshop ci ha dato l’opportunità di riflettere sugli spazi e sulle loro connotazioni, a mettere in discussione le nostre azioni in determinati ambiti sociali e a comprendere come e in quale misura queste azioni possono influenzare identità/natura di un luogo. Il risultato è stato per noi soddisfacente e al contempo sorprendente. Noi tutti abbiamo imparato qualcosa. Da questa esperienza ho capito come alcune regole che diamo per scontate come se esistessero da sempre, in realtà sono nostre barriere mentali costruite e sostenute dalla collettività sociale al fine di raggiungere un fantomatico e apparente ordine delle cose. Ho compreso, inoltre, che la trasgressione non è necessariamente sinonimo di illegalità, ma a volte di riflessione e conoscenza. Non nascondo, comunque, quanto il tema dell’illegalità risulti spesso difficile e “d’impaccio”, nonché scomodo: difficile nella sua vastità e relatività di punti di vista, e d’impaccio poiché il design, per definizione, dovrebbe fornire soluzioni per migliorare alcuni aspetti della vita quotidiana in una cornice di legalità etica e morale. Pertanto, partire dalla sua faccia opposta, “l’illegalità”, non è stato semplice né scontato (Chiara, Kazemaru, Constanze Bolzano, 18 maggio 2015).
25Il tema ha infine portato a una riflessione sulle mura di cinta, portoni, sbarre e sulla loro ripercussione sulle persone e i loro corpi in termini di violenza strutturale, corpi da essi costantemente presidiati, isolati e nascosti. Le mura di cinta non ci dicono chi sono le persone al di là di esse e nemmeno come queste ultime diano un senso alla loro vita all’interno del carcere, le rendano invisibili e limitino fortemente la loro comunicazione con l’esterno:
The workshop on illegal design has challenged us: by choosing this wall we put the focus on its social meanings for the city and its community. The space in front of the wall is a grey zone (How close can you go?), we defied the "authority" provided by the signs.
How far is it really forbidden to get close? Walls are not necessarily barriers. And if they are, we can elude them with a voice, with a simple “hi” (Chiara, Bolzano, 8 maggio 2015).
26Anna Damoli, Veronica Spano, Sabine Erschbaumer hanno scelto di lavorare su un pannello pubblicitario situato al margine di una strada principale e molto trafficata. Il loro intervento ha comportato un’azione di trasformazione del muro/pannello con l’obiettivo di disorientare gli abituali frequentatori della strada, provocando e mettendo in discussione la loro capacità di giudizio e i loro comportamenti conformi alle norme stradali e alle indicazioni segnaletiche. Per realizzare questo progetto si è fatto uso della segnaletica stradale già esistente al fine di costruire una “finta” ma verosimile fermata dell’autobus (Foto 2).
27La fermata è stata realizzata assemblando una serie di elementi recuperati “illegalmente” da fermate ormai in disuso: ad esempio si è utilizzato come indicatore di “fermata provvisoria”, un segnale vecchio e abbandonato ma ancora significativo e riconoscibile. In modo piuttosto sorprendente, a seguito dell’installazione “illecita” del pannello, in una città che nell’immaginario comune appare ligia alle regole da non permettere violazioni di sorta, l’autista di turno alla guida dell’autobus si è fermato per la discesa e la salita dei passeggeri – in questo caso a salire sono state le stesse studentesse autrici del pannello di sosta – mentre una persona è scesa dall’autobus approfittando della nuova fermata, forse perché più vicina al luogo della sua destinazione. Ci siamo chiesti se durante o dopo la fermata, il conducente si fosse accorto o interrogato sul suo comportamento automatico indotto dalla nuova segnaletica pur non essendo mai stato informato dal servizio trasporti per il quale lavorava o se l’automatismo posto in atto fosse passato totalmente inosservato allo stesso operatore in servizio.
28L’intento è stato quello di fare esperienza di come, nel nostro quotidiano, tendiamo a porre in atto una serie di azioni e comportamenti in modo automatico, senza averne piena consapevolezza. Tra questi, possono esservi anche azioni “illecite” o che mai avremmo pensato potessero essere tali, in quanto anch’esse sono parte, in modo più o meno implicito, del nostro stile di vita. Per tale ragione, nella parte finale e propositiva del progetto, è stata data la possibilità alle persone che hanno vissuto l’esperienza di esprimere il proprio parere riguardo alla gestione dei servizi comuni che spesso non corrispondono alle esigenze di chi ne usufruisce minando, pertanto, il legittimo rapporto tra diritti e doveri del cittadino. Da qui è derivato il nome del progetto: “la linea dei desideri”.
29Il muro che ha catturato l’attenzione di Alice dal Ferro, Matilde Merlo e Diana Varlan si trova all’interno di un parcheggio sotterraneo, nei pressi del centro di Bolzano (Foto 3). Si tratta di una parete facente parte di una bocca di lupo per l’aerazione del parcheggio. Le autrici del video hanno deciso di prendere in considerazione il muro nella sua tridimensionalità, dando vita a un nuovo spazio solitamente ignorato dagli utenti dell’area. Il loro obiettivo è stato quello di trasformare quel particolare muro in una sorta di palcoscenico, mettendo in atto una performance che rompesse con gli schemi abitudinari, e attuasse un rovesciamento delle condotte abituali. La sperimentazione, inoltre, aveva l’intento di permettere l’osservazione etnografica dei comportamenti delle persone nel corso di tale esperienza.
30Il parcheggio pubblico sotterraneo è uno spazio molto frequentato. Si tratta di un ambiente che, in alcuni momenti, può giungere ad incutere timore provocando un senso di spaesamento e disagio. Al contempo, si tratta di uno spazio costantemente sorvegliato da telecamere e security, e in cui vigono norme severe. È quindi un luogo/spazio in cui il confine tra sicurezza e insicurezza diviene sfumato e fluttuante.
31Nel corso della performance i passanti si sono trasformati in spettatori attivi interagendo in modi diversi con Alice, Matilde e Diana, quali attori della performance. Nel video sono state colte le reazioni di alcune persone di passaggio, da quelle più incuriosite che si fermavano con sorpresa per chiedere cosa stesse accadendo sino a quelle più perplesse, titubanti o meni inclini a sostare in quanto pensavano si trattasse di un gruppo di attori professionisti impegnati in un set per una produzione cinematografica o pubblicitaria, cercando così, benché palesemente curiose, di passare inosservate. Il personale della security si è più volte avvicinato per controllare la situazione ma, spiazzato ed impreparato di fronte a un evento così insolito ed imprevisto, non ha infine richiesto alcun tipo di autorizzazione.
32La musica dal vivo è stata fondamentale nel contribuire alla creazione di una situazione inattesa: ha saputo trasformare la condizione di monotonia e di “silenzio” che solitamente caratterizza la vita del parcheggio in un ambiente piacevole e vivace, attirando ancor più l’attenzione dei suoi utenti. Ciò ha permesso una nuova interazione tra gli utenti in un luogo dove, solitamente, sono le auto a sostare ma mai le persone.
Di fatto quel che abbiamo organizzato è stata una performance illegale, in quanto nel parcheggio non è consentito trasportare e depositare oggetti; tuttavia, essendo queste norme molto vaghe e imprecise, potremmo dichiarare di non essere andate contro alcuna di esse. Così come accade in moltissimi altri contesti, illegalità e legalità dimostrano di essere due mondi che spesso si intersecano tra loro, con un confine sfumato e poco riconoscibile. Nonostante avessimo dato vita ad un evento/performance in un luogo pubblico, prive di alcun tipo di autorizzazione (la stessa che necessitano i musicisti, artisti e venditori di strada per esempio), nessun passante si è fermato per chiedercela, neppure la security. Erano tutti piuttosto incuriositi dal fatto che poteva essere qualcosa legato al mondo della televisione o della pubblicità (Alice, Matilde, Diana, Bolzano 7 aprile 2015).
33Alex Foradori, Federica Martinelli, Anna Martinuzzi, dopo una fase investigativa nella città, hanno scelto un muro che potesse raccontare una storia ed evidenziare una particolare tematica sociale. A tal fine hanno scelto di realizzare una performance artistica che dialogasse con il muro stesso. Il gruppo ha focalizzato l’attenzione su un muro divisorio posto nella periferia di Bolzano, in una zona industriale, e che “racchiude” al suo interno un centro accoglienza profughi. Ciò che li ha colpiti, sin da subito, è stato il forte contrasto tra il campo profughi delimitato dal muro per tutto il suo perimetro, e l’edificio adiacente composto da lussuosi uffici commerciali attorno ai quali si estende una superficie d’acqua confinante con il muro stesso.
34Dalle prime esplorazioni sul campo e dalle loro condivisioni sono emersi alcuni elementi fondamentali: il campo profughi è stato da loro definito una presenza invisibile all’interno della città, infatti nessuno di coloro – colleghi, amici, conoscenti – con cui gli studenti avevano dialogato ne era a conoscenza, non solo perché i ragazzi che lo abitavano erano privi di documenti e, pertanto, con una mobilità molto ristretta, ma perché la stessa area è assai periferica, situata nel centro della zona industriale, lontana dai complessi abitativi. Proprio su questo aspetto il gruppo di studenti è tornato a riflettere più volte, soprattutto quando, solo qualche giorno dopo la loro prima esperienza in quell’area, una trentina di profughi sono stati assegnati alla provincia di Bolzano. Essendo il centro d’accoglienza sovraffollato, un privato aveva offerto ai profughi un’abitazione inutilizzata nel centro storico. L’azione generosa aveva dato vita a una serie di polemiche e a una accesa manifestazione della Lega Nord. Gli studenti si sono recati sul luogo della manifestazione per intervistare i partecipanti e, successivamente, hanno dialogato anche con gli utenti e i responsabili del centro Caritas di Bolzano. Dal loro sopralluogo hanno fatto personale esperienza di come, fintanto che i rifugiati sono una presenza lontana e invisibile agli occhi dei cittadini, non viene sollevata alcuna polemica. Dal momento in cui, invece, vi è la possibilità concreta di coinvolgerli all’interno del tessuto urbano, essi divengono una presenza scomoda, poiché non possono più essere ignorati e divengono pubblicamente visibili.
35Grazie a questa esperienza si è concretizzato il loro lavoro sul muro quale elemento di divisione sociale e di “nascondimento”, non solo dei ragazzi rifugiati ma delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che caratterizzano lo spazio urbano. Partendo dalla volontà di abbattere metaforicamente la barriera del muro, si è deciso di usare quale oggetto simbolico la palla da demolizione, e di utilizzare l’elemento acqua circoscritto dal muro. L’installazione è consistita in una frase scritta sulla parete divisoria e, in seguito, celata. La “palla da demolizione”, icona per eccellenza dell’abbattimento delle mura e pareti abitative, consisteva in un supporto e un’asta da cui pendeva, attaccata ad una corda elastica, una palla di spugna dipinta di nero. La performance da svolgere prevedeva l’immersione della palla nell’acqua, per poi lanciarla contro la porzione di muro coperta da colore schiumato. L’azione consisteva nello svelare, a poco a poco, e in una modalità condivisa e giocosa con i ragazzi del centro profughi, il messaggio nascosto: “qui nessuno è straniero” (Foto 4).
36I ragazzi del centro, che avevano avuto modo di conoscere gli studenti nel corso dell’esperienza di campo, hanno aderito all’iniziativa con grande entusiasmo, e una domenica, quando gli uffici adiacenti erano chiusi, è stata realizzata la performance.
È stata un’occasione per conoscere i ragazzi e le loro storie, e quindi creare legami umani. L’esperienza ci ha fatto capire quanto poco basti a ognuno di noi per tendere una mano a favore dell’integrazione, la nostra. I ragazzi del centro sono stati sorpresi ed entusiasti della nostra iniziativa, e per quanto ci riguarda, nutriamo la speranza che portino con loro un piccolo ricordo di un gesto di solidarietà che possa ricordargli che la condizione di straniero dovrebbe essere motivo di orgoglio e occasione di scambio e arricchimento per tutti e non pretesto di emarginazione (Alex, Federica e Anna).
37La scelta di una parete all’interno di una piazza aveva l’intento di offrire alla cittadinanza di Bolzano un luogo di scambio e di condivisione di oggetti, superflui per alcuni ma che possono essere ancora utili e/o interessanti per altri. Obiettivo dell’azione era trasformare un muro, sino ad allora poco attraente e quasi invisibile ad ogni passante, in uno spazio di relazione e di scambio attraverso l’esperienza del dono (Foto 5).
38L’esperienza è stata per Irene Borgese, Marie Rothemund e Agnesa Vavrinova un processo di scoperta delle potenzialità trasformative che alcuni luoghi pubblici possiedono. Si è inteso facilitare la costruzione di relazioni attraverso l’esperienza che il dono viene ad instaurare, un atto che vincola gli individui salvaguardandone al contempo la libera autodeterminazione. L’atto di dare come quello di ricevere avviene sulla base di scelte dove l’imprevisto e l’inatteso giocano un ruolo primario. Il dono, infatti, è innanzitutto un’esperienza che implica un atto di fiducia con la quale ci si relaziona agli altri. Alla fine del workshop, le studentesse hanno dovuto riconoscere che l’azione è stata una sorta di scommessa, ancor prima che sulla fiducia del cittadino, su quella accreditata a se stesse.
39Nessuna di loro aveva lavorato, prima di allora, in un luogo pubblico, men che meno senza averne avuto il permesso. Non conoscevano neanche l’identità della persona a cui è stata intitolata la piazza, Alexander Langer, il cui messaggio, citato all’inizio del video, è stato per loro una rivelazione ed un auspicio per quanto sarebbe accaduto nel percorso da loro seguito e per la crescita personale alla quale, tale esperienza, le avrebbe portate.
40“Urban walls” ha preparato il terreno per la semina e fioritura del prodotto finale. Non è questo lo spazio per presentare ogni progetto realizzato dagli studenti, singolarmente o in gruppo, sotto la guida di Claudio Larcher nel corso dell’esame finale. Mi sembra però opportuno fare almeno un paio di esempi. L’esperienza di Anna Martinuzzi al centro di accoglienza le ha permesso di riflettere sulle barriere architettoniche della città e sui processi di esclusione e marginalizzazione. Il suo progetto finale, intitolato Segnatelo (Foto 6), riprende e sviluppa la precedente riflessione sulle barriere architettoniche presenti nelle nostre città anche come ostacolo alla libertà e alla possibilità di movimento di coloro che sono costretti all’utilizzo di sedie a rotelle. Il progetto “Segnatelo” si propone di porre questa condizione all’attenzione di coloro che non sono direttamente colpiti dal problema, ma che non per questo sono da ritenersi meno responsabili.
41L’idea è quella di sfruttare un metodo di comunicazione “illecita”, ovvero fatta attraverso segni in gesso sul suolo pubblico, per sottolineare e rendere visibile una situazione che, per la violazione di diritti che comporta, dovrebbe essere ritenuta illegale da tutti.
42L’intero processo di sviluppo del concept è stato condizionato dall’esigenza di progettare un prodotto di facile riproducibilità, sia dal punto di vista dei materiali sia da quello della produzione. Esso consiste in un braccio di legno fissato sulla carrozzina che regge un gesso colorato e lascia un segno sulla strada. Il segno lasciato dal gesso, oltre a rendere visibile la persona con disabilità, segnerà con più incisività, e quindi con un colore, i punti di difficoltà del percorso della carrozzina stessa. L’obbiettivo è promuovere un’azione, non vendere un oggetto. La forza del progetto, infatti, risiede nella sua accessibilità e condivisione; ed è pensato per poter essere open source, realizzabile da chiunque desideri farlo.
43Il progetto di Veronica Spano, intitolato “Take me to church”, sviluppa la riflessione precedentemente avviata sulla segnaletica stradale e sulla potenzialità comunicativa in ambito sociale e, più specificatamente, educativo. In Italia è sempre all’ordine del giorno il dibattito sul ruolo della religione in edifici pubblici, soprattutto nelle scuole. Professori e studenti che hanno osato togliere il crocifisso dalla parete delle loro classi hanno avuto dei richiami disciplinari, anche se l’Italia resta uno Stato laico. Sembrerebbe quindi “illegale” togliere il simbolo cristiano e cattolico da una scuola pubblica. Veronica ha progettato una serie di oggetti concettuali che usano ironia, gioco e spiritualità. Nello specifico si tratta di tre diversi progetti: il primo è un oggetto da appendere sui muri della classe, che aggiunge al crocifisso altri simboli religiosi alcuni inverosimili, per ribadire la laicità dello stato e la multireligiosità degli spazi pubblici (Foto 7). Il secondo è una sorta di disco orario (Foto 8), in cui si può sempre cambiare religione. Il terzo è un gioco per i bambini: si tratta di una scheda con una griglia in cui è possibile comporre in modo creativo vari simboli religiosi con i gessetti colorati.
44Potrei fare molti altri esempi ma credo che questi bastino a concludere e trasmettere un’esperienza così come vissuta dagli studenti e dalle studentesse unitamente a noi docenti. E ciò non tanto per offrire e proporre nuove metodologie di insegnamento ma, piuttosto, per mantenere viva una conversazione tra più interlocutori interessati alla prassi educativa. Conversazione nella quale, soprattutto laddove si rende possibile un incontro più partecipato e dialogante, emergono bisogni, domande e riflessioni riguardanti il senso del lavoro educativo e delle possibilità offerte oggi dalla formazione d’aula. Sono questi i temi discussi e affrontati partendo dall’assunto della necessità di convivere (quindi di apprendere a stare) con la condizione di incertezza provocata dal processo e dalla relazione educativa. Un’antropologia dell’apprendimento in grado di aprire costantemente all’immaginazione ritrovando una via non tanto, e non solo, per pensare l’alterità ma per creare di continuo alterità.