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Résumés

Per finanziare le proprie infrastrutture, come la corte, la burocrazia, oppure l’esercito, ogni stato deve appropriarsi di una quota delle risorse prodotte dalla popolazione residente entro i suoi confini. Per raggiungere questo obiettivo, i Romani svilupparono un avanzato sistema di accatastamento fondiario e censimento della popolazione: grazie a questo sforzo amministrativo, le procedure di riscossione e redistribuzione delle tasse divennero un formidabile strumento di governo e crescita economica. Gli stati altomedievali al contrario finanziarono le loro attività con i redditi provenienti dallo sfruttamento dei beni regi. Questo espediente fornì all’autorità pubblica sufficienti risorse per governare sui propri sudditi. I saggi qui raccolti esaminano come le strategie finanziarie dello stato cambiarono nel corso del primo millennio. Dai risultati presentati, questo saggio ritiene che le differenze nei modi di prelievo e redistribuzione delle risorse non necessariamente riflettano la solidità di uno stato e il livello di stratificazione sociale al suo interno. Ogni stato infatti preleva le risorse di cui necessita in ragione del sistema di governo, le cui forme di organizzazione sono influenzate dalle circostanze storiche contingenti.

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Notes de l’auteur

Ringrazio Paolo Delogu, Vito Loré ed Eugenia Vitello per avere letto e commentato il testo in diverse fasi della sua stesura.

Texte intégral

Orientamenti semantici

  • 1 Capogrossi Colognesi 2008, p. 23-31, 253-255.
  • 2 Capogrossi Colognesi 1979, p. 434-435.

1Frequentemente si parla di proprietà collettiva o pubblica, ma è doveroso ammettere che nessun’altra qualificazione della proprietà si presta a interpretazioni tanto ambigue e fuorvianti quanto quelle introdotte da termini così generici. Nel dibattito storiografico le espressioni proprietà collettiva o pubblica vengono impiegate per identificare le situazioni storiche più disparate: per esempio, esse vengono usate per descrivere tanto le comunità arcaiche organizzate intorno a una sorta di comunismo primitivo quanto i programmi di collettivizzazione della proprietà privata nei moderni stati socialisti.1 Il tratto unificante tra queste differenti situazioni è che la proprietà collettiva e quella pubblica – la prima connotata dall’assenza e la seconda dalla predominanza dello stato – sembrano emergere unicamente in determinate epoche storiche secondo un ordine di successione ben preciso; l’una precede e l’altra segue (dopo averlo sovvertito) l’ordine sociale dominato dalla proprietà privata. Tale visione è il risultato dell’incontro tra l’evoluzionismo e lo storicismo, due correnti di pensiero del tardo Ottocento che considerano la proprietà privata rispettivamente come il punto di arrivo di un’evoluzione sociale oppure come uno stadio della storia umana da sovvertire per creare un nuovo ordine sociale.2

  • 3 Grossi 1977, p. 38.
  • 4 Capogrossi Colognesi 2010, p. 15-61.
  • 5 Grossi 1977, p. 37-39.

2Ma cosa sono realmente queste due forme della proprietà? Cominciando dalla proprietà collettiva, in un libro per molti aspetti rivoluzionario apparso alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, lo storico del diritto Paolo Grossi ha dimostrato che la proprietà collettiva, in quanto opposto storico e logico della proprietà individuale, configura «un altro modo di possedere» che la storia ha largamente conosciuto.3 La proprietà collettiva si distingue dalla proprietà privata in quanto portatrice e custode di una serie di valori alternativi al diritto pieno e esclusivo di godere di un bene: il dominium ex iure Quiritium elaborato dai giuristi romani.4 Non a caso Grossi parla della proprietà collettiva come di una «proprietà-funzione», vale a dire di uno strumento giuridico diretto a correggere o mitigare (piuttosto che sovvertire) la nozione troppo rigida, perché assoluta, di proprietà individuale. La proprietà collettiva, pertanto, tutela la prevalenza del gruppo e la subordinazione ad esso degli individui e dei loro fini; promuove la natura economica dei beni, la loro destinazione e funzionalità, e infine impone ai membri del gruppo di dare priorità alle situazioni soggettive di dovere su quelle di potere.5

3La revisione operata da Grossi sembra suggerire che anche la proprietà pubblica come quella collettiva abbia finalità diverse dalla proprietà privata. Nei beni pubblici coesistono due elementi: l’appartenenza allo stato e la loro funzione sociale. I beni pubblici sono infatti l’insieme di beni, tanto mobili quanto immobili, appartenenti allo stato, ma anche a comunità di persone individuate o comunque facilmente individuabili per il loro profilo istituzionale (per esempio, i villaggi rurali, le comunità urbane, etc.), vale a dire in ragione non soltanto delle caratteristiche dei beni, ma anche e soprattutto della loro funzione e della loro rilevanza sociale.

  • 6 Lo Cascio 2000, p. 135; Marazzi 2021, p. 1032.

4Tradotto in prospettiva storica, tutto questo significa che nell’Europa romana e post-romana, i beni pubblici coincidono con la proprietà dello stato romano e poi altomedievale. Le peculiarità dei beni pubblici in quest’epoca rispetto all’Europa moderna sono essenzialmente due: primo, parte rilevante della ricchezza statale proveniva dai patrimonia dell’imperatore e dei re – che fornivano sia rendite imponenti estratte attraverso le locazioni (o cessioni di vario tipo), sia redditi derivanti dalla gestione diretta di parti di questi patrimoni; secondo, sebbene tali beni appartenessero alla persona del sovrano, il quale pertanto si presentava come il titolare e il supremo amministratore di tutti i beni pubblici, non potevano essere considerati proprietà privata del sovrano ma erano di fatto al servizio del publicum.6

  • 7 Lo Cascio 2000, p. 185-187; Grelle 1963, p. 18-21.

5Si potrebbe allora congetturare che, se i beni collettivi configurano, secondo l’illuminante formulazione già ricordata di Paolo Grossi, «un altro modo di possedere», i beni pubblici che li assorbono nel processo di trasformazione dello stato romano rappresentano per il potere politico che li controlla «un altro modo di governare». Questa osservazione solleva un’ulteriore domanda: «un altro modo di governare» rispetto a quale sistema politico? Attraverso un lungo percorso di privatizzazione delle terre pubbliche lo stato romano sviluppa e impone una cultura politica basata su un semplice principio: terra ai privati cittadini in cambio del diritto dello stato di riscuotere il tributo dalle proprietà altrui.7 Sembra allora che in questo contesto «un altro modo di governare» significhi un modo alternativo a un’organizzazione politica fondata prevalentemente sulla proprietà privata che lo stato sfrutta attraverso la tassazione.

Cambiare paradigma

  • 8 Wickham 1984, p. 3-36.
  • 9 Cosentino 2007, p. 123; Cosentino 2010, p. 18-19.
  • 10 Durliat 1990; Goffart 2008, p. 166-190; Goffart 2016, p. 21-40; Bachrach 2022, p. 148-160.
  • 11 Goffart 1989, p. 167-211.

6Nella recente storiografia l’idea che possa esistere un modo di governare “altro” rispetto all’esperienza romana non è accolta con favore. La ragione è semplice: sin dalla pubblicazione nel 1984 dell’articolo di Chris Wickham The other transition: from the ancient world to feudalism, il dibattito sulla continuità o discontinuità dei poteri pubblici tra il tardoantico e l’altomedioevo ha riguardato la sopravvivenza o meno del sistema fiscale tardoromano.8 Da allora l’abbandono della cultura politica romana fondata sulla tassazione è percepito come la fine del publicum.9 Questa convinzione si è affermata non perché Wickham abbia mai teorizzato la scomparsa dello stato come effetto immediato e incontrovertibile della fine della fiscalità imperiale, quanto piuttosto perché alcuni studiosi, nel tentativo di dimostrare contro Wickham la continuità delle strutture politiche e economiche tardoantiche sino all’epoca carolingia (o persino oltre), hanno legato i destini dello stato altomedievale al modello di finanziamento tardoimperiale.10 Secondo questi studiosi lo stato altomedievale funziona solo se è capace di riprodurre il sistema di riscossione e spesa fiscale tardoromano; in assenza della tassazione fondiaria i poteri locali si appropriano delle risorse economiche e causano l’indebolimento dell’autorità centrale, creando così le condizioni per l’emergere del feudalesimo.11

  • 12 Heather 2005, p. 385-430; Ward-Perkins 2005, p. 54-57; Wickham 2005, p. 81-87; Sarris 2011, p. 55-6 (...)
  • 13 Haldon 2008, p. 332; Tedesco 2016a, p. 138-140; Tedesco 2019a, p. 565-567.
  • 14 Barnish 1986, p. 173; Heather 1996, p. 182; Innes 2006, p. 56-57; Porena 2012, p. 21-22, 159-162.
  • 15 Wickham 2005, p. 115-120; Gasparri 2012, p. 13-14; Tedesco 2015, p. 166-178.
  • 16 Castellanos 2003, p. 202, 206-207; Fernandez 2017, p. 168-173.
  • 17 Wickham 2005, p. 97; Tedesco – Eisenberg – Wood 2023, p. 257-262.

7Numerose ricerche hanno tuttavia dimostrato che tale ricostruzione non coglie la complessità del passaggio dall’impero tardoromano ai regni altomedievali. Il sistema di tassazione tardoimperiale smette di funzionare in Occidente nel quinto secolo.12 Le tasse continuano a essere riscosse nei regni successori ancora nel sesto secolo ma già allora non costituiscono più la principale fonte di reddito del potere pubblico, che tuttavia sopravvive.13 La terra diviene da allora in avanti la base economica del potere regio, sia che venga utilizzata per remunerare l’esercito tramite assegnazioni fondiarie, sia che venga sfruttata estraendo direttamente risorse o indirettamente riscuotendo la rendita fondiaria.14 Nel settimo secolo questa strategia diviene ancora più evidente. Lo dimostrano le esperienze dell’Italia longobarda e della Gallia merovingia, regioni nelle quali i governanti abbandonano la tassazione fondiaria definitivamente.15 Nella Spagna visigota invece, nonostante qualche forma di tributo venga mantenuta sino al pieno settimo secolo,16 i re rafforzano il controllo diretto della terra cedendo in cambio alle elites fondiarie il diritto all’estrazione delle tasse.17

  • 18 Martín Viso – Díaz 2011, p. 6-21, p. 8; Tedesco 2013, p. 228-229.
  • 19 Cosentino 2019, p. 433.
  • 20 Petralia 2023, p. 412-413.

8Il complesso delle ricerche sul tema traccia, pertanto, una ricostruzione non unitaria della transizione dall’imposta alla rendita nelle varie regioni dell’impero.18 È però vero che anche tra gli studiosi che riconoscono che nell’Occidente altomedievale le imposte non solo diminuiscono ma perdono importanza politica, l’attenzione si è spostata dalla tassazione alla competizione tra i percettori della rendita fondiaria.19 Il principale limite di questa impostazione è che le indagini si sono concentrate sul trasferimento dei poteri politici ed economici dai re alle aristocrazie fondiarie, invece che sulle modalità attraverso le quali i re, in un contesto finanziario del tutto mutato, amministrarono i beni pubblici a loro disposizione.20

  • 21 Bougard – Loré, 2019.
  • 22 Collavini 2019, p. 427.
  • 23 West 2019, p. 176.

9Il recente volume Beni pubblici, beni del re. Le basi economiche dei poteri regi nell’altomedioevo, curato da François Bougard e Vito Loré, segna un’inversione di tendenza rispetto al precedente orientamento.21 Il libro conduce un’analisi comparata dei possedimenti nella disponibilità dei re e dei loro rappresentanti nell’Occidente altomedioevale; indaga il concreto funzionamento dei patrimoni regi mettendone in evidenza il momento della stabilità nella gestione, e persino dell’incremento del patrimonio, invece di quello della cessione e dispersione. Viene inoltre sottolineato che anche la cessione di parti del patrimonio a persone di fiducia del governante è un atto strumentale finalizzato a costruire o rinsaldare il potere politico del concedente piuttosto che un mero indicatore della sua debolezza o della superiorità dei poteri locali. In questo caso, il sistema di clientele e fedeltà costruito attraverso le assegnazioni fondiarie pare essere più importante del mero rendimento economico generato dal pagamento della rendita, fosse essa corrisposta in natura, denaro, oppure lavoro. I beneficiari ripagano il concedente nel lungo periodo con donazioni fondiarie che non solo riproducono ma persino accrescono il patrimonio dell’autorità governante.22 Laddove la capacità del governante non è in grado di condizionare «la politica della terra» egli può intervenire con gli strumenti giudiziari a sua disposizione, comminando sanzioni oppure arrivando a confiscare i beni di coloro che considera, a torto o a ragione, degli avversari politici.23

  • 24 Le Jan 2019, p. 154-155.
  • 25 Bougard 2019, p. 81-90; Martín Viso 2019, p. 192, p. 207-212.
  • 26 West 2019, p. 167.

10Naturalmente esiste sempre la possibilità che «la politica della terra» fallisca per varie ragioni; alcune di queste sono illustrate con la consueta puntualità nell’articolo di Regine Le Jan dedicato ai regni post-carolingi occidentali;24 ma complessivamente, i contributi raccolti nel volume delineano un quadro che rigetta l’idea di uno stato altomedievale strutturalmente debole perché diverso da quello romano. Essi suggeriscono al contrario che altre forme di gestione del potere pubblico altrettanto sofisticate sono possibili.25 Il modello alternativo è suggerito da Charles West, che nel suo lucido intervento si richiama al concetto di stato patrimoniale, una formazione politica nella quale il governante controlla le entrate delle sue proprietà invece di sviluppare meccanismi di estrazione delle risorse dalle proprietà appartenenti a persone sotto il suo controllo politico, vale a dire da coloro che, con termine moderno, chiamiamo i contribuenti.26

  • 27 Wolf 1982, p. 79-82; Haldon 1993, p. 63-69.

11In termini concettuali lo stato patrimoniale rientra nell’ampia categoria degli stati tributari studiati da Eric Wolf e John Haldon.27 Ma l’aggettivo “patrimoniale” associato a “stato” reintroduce una importante distinzione funzionale tra il governante e le elites fondiarie: questa differenza in parte si perde nel dibattito concernente il passaggio dalla tassazione alla rendita fondiaria. In quel contesto, infatti, si indaga la quota di rendita fondiaria spartita tra i re e le elites o i margini di supremazia in termini di terre e redditi conservata dai sovrani rispetto ai loro concorrenti, mentre si tende a marginalizzare il fatto che i primi usano le loro ricchezze per far funzionare lo stato. In conclusione, il volume dimostra che, sebbene sia indubbio che l’imposta fondiaria fosse uno strumento formidabile per mobilitare risorse a favore del publicum, il potere economico dei re altomedievali non venne totalmente compromesso dalla sua scomparsa. Le dimensioni degli stati altomedievali e le ambizioni dei loro re non vanno valutate dalla prospettiva di una differente cultura politica ma come la manifestazione di un «modo diverso di governare».

Una storia lunga un millennio

  • 28 Wickham 2019, p. 421.

12Diversamente dal volume sui Beni pubblici, i quattro saggi pubblicati nella presente raccolta si concentrano prevalentemente sull’Italia. Rispetto ad una analisi comparativa, essi preferiscono un approccio diacronico, che spaziando lungo un arco temporale di circa nove secoli consente di osservare le vicissitudini delle terre pubbliche dal secondo all’undicesimo secolo della nostra era. Il filo conduttore è la persistenza del carattere pubblico di alcuni possedimenti (terre, palazzi e impianti produttivi), indipendentemente dalle trasformazioni politiche e dai trasferimenti di proprietà che tali beni subirono nel corso dei secoli. Un bene pubblico conserva caratteristiche proprie, che lo distinguono dai beni privati, sebbene le funzioni dello stato mutino e il ruolo degli stessi beni pubblici necessariamente cambi. Ma l’aspetto di maggiore interesse è l’uso che i governanti fanno del loro patrimonio in circostanze storiche non solo cronologicamente molto lontane ma anche molto diverse tra loro per congiuntura politica ovvero economica.28 I beni pubblici, in particolare quelli fondiari, hanno il fondamentale compito di procurare risorse da spendere per il mantenimento dell’apparato statale, le cui dimensioni e prerogative cambiano da una compagine politica all’altra. Non sembra inutile allora confrontare, seppure brevemente, queste diverse situazioni per avere un quadro se non esaustivo quantomeno suggestivo della funzione dei beni pubblici in Italia nel corso del primo millennio.

  • 29 Hopkins 1980, p. 101-125; Hopkins 2002, p. 190-230; Hopkins 2009, p. 183-184; Lo Cascio 1991a, p. 3 (...)
  • 30 Lo Cascio 1991b, p. 701.
  • 31 Lo Cascio 2012b, p. 5, 8-9.
  • 32 Zelener 2012, p. 173.
  • 33 Lo Cascio 1993, p. 256; 1991b, p. 729.

13L’argomento esaminato nel saggio di Marco Maiuro è la relazione tra calo demografico, decrescita delle entrate fiscali e incremento del patrimonio imperiale. L’autore indaga le importanti trasformazioni introdotte dalla dinastia severiana (193-235 d.C.) nella gestione delle proprietà imperiali all’inizio del terzo secolo. Le ricerche sull’economia romana concordano sull’esistenza di un’importante crescita produttiva dell’impero nel suo complesso durante i due primi secoli del principato. Il modello che meglio spiega le ragioni di questa crescita è quello elaborato da Keith Hopkins, il quale individua nella riscossione delle tasse monetarie nelle ricche province del Mediterraneo (in particolare Africa e Egitto) e nel loro successivo trasferimento e impiego nelle province sede delle capitali e dell’esercito imperiali il principale motore di un effettivo incremento della produttività (specialmente del settore primario), dell’espansione delle relazioni mercantili-monetarie, del processo di specializzazione, nonché dei progressi dell’urbanizzazione.29 Tuttavia, negli ultimi due o tre decenni dell’età antonina l’apparato burocratico-militare dell’età del principato (se non l’economia nel suo complesso) entra in crisi per effetto di un decremento consistente delle entrate, vale a dire a causa di una radicale diminuzione della quota di surplus tradizionalmente sottratta in forma di tassazione.30 Le cause di questa riduzione sono state individuate in un radicale decremento dei fattori reali della produzione presumibilmente da connettere con le crisi di mortalità provocate dalla Peste Antonina (165-180 d.C.),31 sebbene – va precisato –, non esista accordo tra gli studiosi sull’effettiva incidenza della mortalità nella popolazione procurata dalla crisi epidemica.32 Maiuro si misura con la ripresa in età severiana dimostrando come essa sia dovuta a un complesso di interventi, i quali in primo luogo accentrano l’esazione fiscale eliminando l’intermediazione dei privati sia nella riscossione delle imposte sia nel trasporto delle derrate; in secondo luogo, sostituiscono la riscossione in moneta con quella in natura, con il duplice obiettivo di neutralizzare gli effetti dell’inflazione monetaria e contenere la pressione fiscale sui contribuenti. Tuttavia, un calo demografico significa non solo meno contribuenti (quindi meno entrate fiscali oppure tasse più elevate sulla popolazione sopravvissuta) ma soprattutto meno popolazione produttiva, meno contadini che coltivano la terra e pagano le rendite ai proprietari. Dunque, le grandi confische operate da Settimio Severo (193-211 d.C.) nei confronti dei seguaci dei suoi avversari Pescennio Nigro e Clodio Albino, servirono, per l’appunto, secondo Maiuro, per allargare la sfera del surplus controllata direttamente dallo stato. Sui terreni incorporati nel patrimonio imperiale tramite le confische l’imperatore percepisce non solo l’imposta fondiaria, ma anche la rendita precedentemente incamerata da un certo numero di rentiers.33

14Al di là del fattore scatenante, la cui identificazione resta dibattuta, l’elemento di interesse nella tesi di Maiuro (e prima di lui di Elio Lo Cascio) consiste nell’avere individuato i meccanismi di reazione dello stato romano di fronte ai problemi dell’economia reale. Lo stato romano contrasta la contrazione delle entrate fiscali intervenendo in prima istanza sui meccanismi di tassazione (si passa dall’imposizione monetaria a quella in natura); se queste misure si rivelano insufficienti, lo stato assume il controllo dei mezzi di produzione (principalmente terra e manodopera) per poter introiettare sufficienti risorse per finanziare l’apparato pubblico.

  • 34 Eisenberg – Tedesco 2021, p. 505-509.
  • 35 Carrié 1993, p. 310.
  • 36 Eisenberg – Tedesco 2021, p. 530-531.

15Il tema trattato da Dario Internullo riguarda invece la riorganizzazione delle proprietà fondiarie in Italia settentrionale a seguito del radicale cambiamento politico avvenuto a metà del sesto secolo: la transizione dall’epoca gota e quella bizantina. La storia evenemenziale è nota. Recuperato il controllo politico e militare della penisola dopo una estenuante guerra durata venti anni, l’autorità imperiale assegna alla chiesa nicena, nella fattispecie quella di Ravenna, parte delle terre in precedenza espropriate dai Goti ai proprietari locali. Queste terre includevano molto probabilmente buona parte di quello che era stato il patrimonio dell’imperatore d’Occidente e del re Odoacre (476-493 d.C.). L’obiettivo dell’autorità imperiale è di riattivare la produzione agraria e di conseguenza la riscossione fiscale su quei medesimi territori. Sarebbe tuttavia sbagliato interpretare l’assegnazione fondiaria alle chiese come una delega dei poteri pubblici alle istituzioni ecclesiastiche. A seguito dell’assegnazione delle terre, le chiese non diventano titolari della riscossione delle imposte, le quali, come è stato incontrovertibilmente dimostrato, rimangono prerogativa esclusiva dei funzionari imperiali.34 Le chiese, e i loro vescovi in particolare, servono semplicemente da intermediari tra il potere politico e le comunità locali nella loro qualità di grandi proprietari, secondo una consuetudine fiscale consolidata che delegava alle elites fondiarie la risoluzione dei conflitti in tema di riscossione fiscale.35 La presenza di Johannes capitularius nel papiro ravennate 2, datato tra il 565 e il 570, vale a dire agli anni immediatamente successivi alla conquista imperiale, sembra richiamare la sopravvivenza di questa pratica fiscale, sebbene la frammentarietà della fonte non permetta di saperne di più sul personaggio.36

  • 37 Geary 1985, p. ix-xi; Esders 2021, p. 565-568.

16Le chiese sono preferite per ricoprire questo ruolo rispetto alle elites laiche perché hanno un assetto patrimoniale che resta stabile nel tempo: come ha osservato Patrick Geary e ricordato di recente Stefan Esders, diversamente dagli altri proprietari le istituzioni ecclesiastiche «non muoiono mai».37 Esse sono in grado di garantire non solo la conservazione dei patrimoni fondiari e il loro accrescimento attraverso le numerose donazioni, ma configurano, come Internullo dimostra chiaramente ricostruendo la storia del saltus erudianus, un centro direzionale della produzione e distribuzione di beni e servizi cui il potere politico e probabilmente anche gli altri produttori possono fare costante riferimento.

  • 38 Verhulst 2002, p. 34-37; Tedesco 2019b, p. 131.
  • 39 Percival 1969, p. 454-455; Sarris 2004, p. 285, 298; Wickham 2005, p. 280-302; Wickham 2009, p. 204 (...)

17L’altro tema introdotto rapidamente da Internullo e ripreso con maggiore sistematicità da Paolo Tomei nel suo saggio è quello della genesi del sistema bipartito nell’Italia del sesto secolo. Il sistema bipartito si compone di due elementi: un’unità fondiaria gestita direttamente dal proprietario e una serie di appezzamenti concessi in affitto a famiglie contadine, le quali devono adempiere a un complesso di prestazioni di opera a favore del padrone.38 I due autori, come numerosi studiosi prima di loro, si chiedono legittimamente se il sistema agrario descritto nelle carte ravennati (specificatamente nel papiro 3 al centro dell’intervento di Internullo) possa considerarsi l’antesignano dell’organizzazione bipartita affermatasi in Gallia settentrionale nel settimo secolo.39

  • 40 Vera 1994, p. 136-138.
  • 41 Wickham 1981, p. 40; 2005, p. 115-120; Gasparri 2012, p. 13-14; Tedesco 2015, p. 166-173.
  • 42 Marazzi 2021, p. 1035. Le fonti primarie e la relativa discussione si trovano in Paulus Diaconus, H (...)

18Tomei affronta brillantemente la questione partendo dalle tracce della curtis regia nei contesti di quinto e sesto secolo ancora dominati dal cosiddetto «sistema agrario tardoantico», un’organizzazione rurale prevalentemente basata sull’affitto.40 In quel contesto, i contadini pagano ai proprietari la rendita fondiaria in natura o denaro ma raramente con prestazioni di lavoro. Nella ricostruzione dell’autore il settimo secolo segna un momento di rottura nella storia non solo politica, ma agraria, economica e finanziaria dell’Italia altomedievale. Lo stato longobardo ha abbandonato la tassazione fondiaria verosimilmente tra la fine del sesto e l’inizio del settimo secolo.41 È molto probabile, come ha di recente ricordato Federico Marazzi, che la cessione di parte dei patrimoni ducali al neo eletto re Autari (584-590), sia da collegare al definitivo abbandono delle forme di imposizione fiscale di cui dà notizia Paolo Diacono nella sua Historia Langobardorum.42 La curtis regia assume allora un ruolo fondamentale sia come principale risorsa economica del potere pubblico sia come modello per le curtes ducali.

  • 43 Kehoe 1988, p. 188-223; Lo Cascio 1991a, p. 343; Lo Cascio 2009, p. 282-284.

19Il sistema agrario bipartito di settimo secolo appare dunque profondamente diverso dall’organizzazione agraria dei secoli precedenti. E sebbene sia Internullo sia Tomei identifichino correttamente come elemento distintivo del sistema bipartito il collegamento tra proprietà pubblica e la prestazione di operae, va però sottolineato che le prestazioni d’opera rivestono nelle curtes longobarde una funzione molto diversa da quella che ricoprivano nelle proprietà imperiali nel periodo compreso tra il secondo e il sesto secolo. Nella cultura tributaria romana le operae sono uno strumento messo a disposizione dei grandi affittuari dei saltus imperiali per aumentare la reddittività agricola, garantendo così il pagamento delle tasse e della rendita fondiaria.43

  • 44 Liverani 2018, p. 106; Whittaker 1978, p. 355.
  • 45 Loré 2019, p. 69-70.
  • 46 Naismith 2014, p. 6-7; Naismith 2023, p. 11-14; Kohl 2019, p. 155-156, 159-160; Tedesco 2019b, p. 1 (...)
  • 47 Shaw 2008, p. 109.

20Nella cultura politica longobarda, come in altre organizzazioni politiche di epoche diverse (per esempio la civiltà di Uruk studiata da Mario Liverani oppure le comunità agropastorali del predeserto sahariano indagate da C.R. Whittaker),44 le operae sono invece uno strumento necessario per assicurare la sopravvivenza dell’unità produttiva centrale.45 In tale contesto, come in ambito franco, l’elemento del ritorno economico per le parti coinvolte è mediato dal ruolo esercitato dal patronato e dai legami che si creano tra l’autorità pubblica, i proprietari e i contadini. L’uso della moneta, la formazione dei prezzi, e in alcuni casi dei salari (le prestazioni d’opera sono obbligatorie ma non necessariamente gratuite), non rispondono pienamente a criteri di efficientizzazione economica.46 Non si tratta di una differenza di poco conto. Allora la domanda fondamentale non riguarda l’origine del sistema bipartito, un sistema che, come ci ricorda Brent Shaw, è possibile trovare in luoghi ed epoche molto distanti tra loro, quanto piuttosto i differenti effetti e le varie implicazioni che tale sistema ha per la società e l’economia nel suo complesso.47

  • 48 Bianchi – Cantini – Collavini 2019, p. 336.

21Esaminando il caso toscano in epoca longobarda, Simone Collavini offre un eccellente studio che risponde precisamente a questa domanda. L’autore esamina le dinamiche di accentramento e dispersione dei beni pubblici nel paesaggio regionale, e dimostra come, diversamente che altrove, in Toscana la conquista longobarda abbia innescato un processo di espansione del patrimonio fiscale connotato da diseguale distribuzione nello spazio e nel tempo. Al principio il processo di riorganizzazione venne limitato alle sole risorse strategiche – tanto quelle naturali (come, per esempio, la massa Tagiani poi Massaciuccoli) quanto quelle collegate al controllo della viabilità – entrambe concentrate nella parte settentrionale della regione. Il numero delle curtes fiscali, con la loro inusuale scala e complessità, nonché la loro distribuzione sulle principali vie di comunicazione terrestri, fluviali e costiere formarono una sorta di macrosistema interconnesso, facente perno su siti più complessi di altri dal punto di vista sia dell’assetto insediativo, sia della vocazione economica, ma che traeva la propria forza dalla sua appartenenza a domini fiscali. Questa rete di possedimenti fondiari e impianti produttivi era in grado di far circolare i prodotti senza necessità di intermediazioni commerciali, configurando una specie di sistema economico chiuso e autosufficiente. Tuttavia, le monete rinvenute negli snodi commerciali della rete suggeriscono che questi siti fungessero anche da occasionali punti di contatto con la rete degli scambi commerciali esterni. Il denaro potrebbe essere stato utilizzato per il pagamento e la riscossione dei censi (sebbene le produzioni specializzate di particolari risorse naturali come i pesci di Massaciuccoli venissero versate in natura), ma anche per l’acquisto di manufatti estranei al circuito curtense.48

  • 49 Bianchi – Cantini – Collavini 2019, p. 346-348.

22Tale sistema economico venne successivamente esteso alle proprietà private che entrarono a far parte del patrimonio pubblico.49 Il motore di questa seconda fase espansiva del patrimonio fiscale sarebbe da individuare in una lungimirante politica di concessioni fondiarie. Consolidando i meccanismi di patronato ed espandendo la rete di clientele, tale politica creò le condizioni per la successiva espansione del patrimonio pubblico attraverso le donazioni dei grandi e medi proprietari residenti nella regione. Sebbene questi beni venissero immessi nel patrimonio fiscale, persisteva una distinzione sulle modalità di rivendicazione e difesa tra beni di origine fiscale oppure privata; mentre è difficile ipotizzare che questa differenza avesse un impatto sulla concreta gestione economica dei possedimenti.

Traiettorie di indagine

23In linea con il complesso degli studi recenti condotti sul tema dei beni pubblici, questa raccolta di saggi percorre tre principali linee di indagine.

  • 50 Tedesco c.d.s..

24La prima riguarda la diversa funzione dei beni pubblici nelle formazioni politiche del primo millennio: i beni pubblici esistono sia nello stato fiscale romano sia in quello patrimoniale altomedievale ma, mentre nel primo sono una fonte emergenziale di reddito subordinata alla tassazione, nel secondo sono lo strumento fondamentale attraverso il quale il potere pubblico esercita la sua azione politica. Naturalmente non esiste una divisione netta tra queste due formazioni, ma una serie di intersezioni, le quali, non essendo né chiuse in sé stesse né incontrovertibili, precludono una rigida classificazione per tipi nel momento in cui lo studioso tenta di ricostruire la transizione dal tardoantico al primo medioevo.50

  • 51 Haldon 1993, p. 77; Wickham 2021, p. 11-12.
  • 52 Wickham 2019, p. 415; Marazzi 2021, p. 1036.

25La seconda linea di indagine è invece trasversale allo stato fiscale e patrimoniale. Essa considera le situazioni in cui le proprietà pubbliche funzionano come modello per le proprietà dei privati, influenzandone i sistemi di gestione agraria e controllo della manodopera. Questa visione implica che la proprietà pubblica non ha caratteristiche diverse dalle altre proprietà se osservata dalla prospettiva di coloro che coltivano materialmente la terra:51 al contrario, i sistemi di gestione fondiaria e sfruttamento della manodopera contadina sono uniformi e trasmissibili.52 Il sistema nel suo complesso è molto fluido e ciò permette al patrimonio pubblico di espandersi oppure contrarsi a seconda delle congiunture politiche, economiche, e sociali. Le peculiarità dell’una e dell’altra forma di proprietà non possono essere identificate astrattamente a priori, ma vengono definite di volta in volta sulla base dei criteri di appartenenza e funzione sociale.

  • 53 Spagna visigota: Valverde Castro 2000, p. 238-243; Collins 2004, p. 87; Italia longobarda: Gasparri (...)
  • 54 Francia merovingia: Haldon 1993, p. 203-218; 2015, p. 380; per una diversa prospettiva si veda: Inn (...)

26La terza linea di indagine è rivolta precisamente a individuare le differenze tra le terre pubbliche e le terre private. L’elemento distintivo dell’«altro modo di governare» è che la terra, in quanto patrimonio pubblico, (o meglio sarebbe dire patrimonio fiscale) può essere usata dai sovrani per trarne risorse economiche o/e per creare coesione politica, e così mantenere lo stato. La condizione è che i sovrani conservino il controllo reale dei beni fiscali sfruttati direttamente o ceduti, e che abbiano la consapevolezza della loro natura pubblica. Nell’Italia longobarda e nella Spagna visigota l’idea del pubblico e dei connessi diritti/doveri dei sovrani e dei liberi (cioè della natura statale del potere) sembra sopravvivere nonostante il sistema di finanziamento statale cambi radicalmente.53 Tuttavia, dal momento che tale consapevolezza varia da una compagine politica all’altra – che dire per esempio della concezione dello stato nella Francia merovingia, nei regni anglosassoni oppure in Danimarca?54 – il discorso si sposta allora sull'efficacia dello sfruttamento diretto del patrimonio fiscale nella formazione della ricchezza regia (la funzione del tesoro) e su come i governanti concretamente usavano tali risorse per preservare e/o espandere il loro potere politico ed economico.

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Notes

1 Capogrossi Colognesi 2008, p. 23-31, 253-255.

2 Capogrossi Colognesi 1979, p. 434-435.

3 Grossi 1977, p. 38.

4 Capogrossi Colognesi 2010, p. 15-61.

5 Grossi 1977, p. 37-39.

6 Lo Cascio 2000, p. 135; Marazzi 2021, p. 1032.

7 Lo Cascio 2000, p. 185-187; Grelle 1963, p. 18-21.

8 Wickham 1984, p. 3-36.

9 Cosentino 2007, p. 123; Cosentino 2010, p. 18-19.

10 Durliat 1990; Goffart 2008, p. 166-190; Goffart 2016, p. 21-40; Bachrach 2022, p. 148-160.

11 Goffart 1989, p. 167-211.

12 Heather 2005, p. 385-430; Ward-Perkins 2005, p. 54-57; Wickham 2005, p. 81-87; Sarris 2011, p. 55-68.

13 Haldon 2008, p. 332; Tedesco 2016a, p. 138-140; Tedesco 2019a, p. 565-567.

14 Barnish 1986, p. 173; Heather 1996, p. 182; Innes 2006, p. 56-57; Porena 2012, p. 21-22, 159-162.

15 Wickham 2005, p. 115-120; Gasparri 2012, p. 13-14; Tedesco 2015, p. 166-178.

16 Castellanos 2003, p. 202, 206-207; Fernandez 2017, p. 168-173.

17 Wickham 2005, p. 97; Tedesco – Eisenberg – Wood 2023, p. 257-262.

18 Martín Viso – Díaz 2011, p. 6-21, p. 8; Tedesco 2013, p. 228-229.

19 Cosentino 2019, p. 433.

20 Petralia 2023, p. 412-413.

21 Bougard – Loré, 2019.

22 Collavini 2019, p. 427.

23 West 2019, p. 176.

24 Le Jan 2019, p. 154-155.

25 Bougard 2019, p. 81-90; Martín Viso 2019, p. 192, p. 207-212.

26 West 2019, p. 167.

27 Wolf 1982, p. 79-82; Haldon 1993, p. 63-69.

28 Wickham 2019, p. 421.

29 Hopkins 1980, p. 101-125; Hopkins 2002, p. 190-230; Hopkins 2009, p. 183-184; Lo Cascio 1991a, p. 324; Tedesco 2016b, p. 14.

30 Lo Cascio 1991b, p. 701.

31 Lo Cascio 2012b, p. 5, 8-9.

32 Zelener 2012, p. 173.

33 Lo Cascio 1993, p. 256; 1991b, p. 729.

34 Eisenberg – Tedesco 2021, p. 505-509.

35 Carrié 1993, p. 310.

36 Eisenberg – Tedesco 2021, p. 530-531.

37 Geary 1985, p. ix-xi; Esders 2021, p. 565-568.

38 Verhulst 2002, p. 34-37; Tedesco 2019b, p. 131.

39 Percival 1969, p. 454-455; Sarris 2004, p. 285, 298; Wickham 2005, p. 280-302; Wickham 2009, p. 204-206; per una prospettiva globale, Tedesco 2020, p. 334-335.

40 Vera 1994, p. 136-138.

41 Wickham 1981, p. 40; 2005, p. 115-120; Gasparri 2012, p. 13-14; Tedesco 2015, p. 166-173.

42 Marazzi 2021, p. 1035. Le fonti primarie e la relativa discussione si trovano in Paulus Diaconus, Historia Langobardorum II, 31-32; III, 16; Delogu 1990, p. 111-120; Pohl 2001a, p. 195-196; Gasparri 2012, p. 9-17.

43 Kehoe 1988, p. 188-223; Lo Cascio 1991a, p. 343; Lo Cascio 2009, p. 282-284.

44 Liverani 2018, p. 106; Whittaker 1978, p. 355.

45 Loré 2019, p. 69-70.

46 Naismith 2014, p. 6-7; Naismith 2023, p. 11-14; Kohl 2019, p. 155-156, 159-160; Tedesco 2019b, p. 135-136.

47 Shaw 2008, p. 109.

48 Bianchi – Cantini – Collavini 2019, p. 336.

49 Bianchi – Cantini – Collavini 2019, p. 346-348.

50 Tedesco c.d.s..

51 Haldon 1993, p. 77; Wickham 2021, p. 11-12.

52 Wickham 2019, p. 415; Marazzi 2021, p. 1036.

53 Spagna visigota: Valverde Castro 2000, p. 238-243; Collins 2004, p. 87; Italia longobarda: Gasparri – La Rocca 2023, p. 42.

54 Francia merovingia: Haldon 1993, p. 203-218; 2015, p. 380; per una diversa prospettiva si veda: Innes, 2000, p. 262; regni anglosassoni e Danimarca: Wickham, 2005, p. 303-379; Fleming, 2010, p. 104-110; per una diversa tesi si veda: Fafinski, 2021, p. 143-193.

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Pour citer cet article

Référence papier

Paolo Tedesco, « Conclusioni: «Un altro modo di governare» »Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge, 136/1 | 2024, 69-76.

Référence électronique

Paolo Tedesco, « Conclusioni: «Un altro modo di governare» »Mélanges de l’École française de Rome - Moyen Âge [En ligne], 136/1 | 2024, mis en ligne le 24 octobre 2024, consulté le 19 mai 2025. URL : http://journals.openedition.org/mefrm/13905 ; DOI : https://doi.org/10.4000/12rym

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Auteur

Paolo Tedesco

Eberhard Karl Universität Tübingen, paolo.tedesco@uni-tuebingen.de

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