Gli operai hanno ancora pochi anni di tempo? Morte e vitalità della fabbrica
Testo integrale
1Comincerò con una citazione:
- 1 Levi, Primo, La chiave a stella [1978], Torino, Einaudi, 1991, p. 3.
Eh no: tutto non le posso dire. O che le dico il paese, o che le racconto il fatto: io però, se fossi in lei, sceglierei il fatto, perché è un bel fatto. Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé, e tira fuori una storia1.
- 2 Raboni, Giovanni, “Riesce a creare suspense col montaggio di una gru”, in Primo Levi, Riga, XIII, 1 (...)
2Qualcuno forse lo avrà riconosciuto: è l’incipit di un bellissimo libro di Primo Levi, La chiave a stella. Chi parla è Libertino Faussone, un operaio torinese altamente specializzato che gira per il mondo montando grandi strutture metalliche. Faussone ama con una passione ostinata il proprio lavoro e gli oggetti che costruisce, è estremamente fiero delle proprie competenze e di un sapere tutto empirico con cui aggira problemi a prima vista insolubili trovando ogni volta soluzioni inedite. Animato da questa fierezza e da questa passione, racconta al chimico Primo Levi le sue innumerevoli peripezie nei cantieri dei paesi più disparati: la costruzione di un ponte sospeso, di un derrick, di un traliccio. Lamiere, profilati, motori di sollevamento, argani sono gli effettivi eroi delle sue storie. Come ha scritto Giovanni Raboni, la scommessa è quella di “riuscire a creare suspense col montaggio di una gru”2. Dietro la scommessa letteraria, però, c’è una più decisiva scommessa ideologica: la rappresentazione del lavoro tecnico, manuale, come impresa creativa, come esercizio di competenza, come dimensione attraverso la quale l’individuo può misurarsi con se stesso, conoscersi; ritrovare il gusto del cimento, della sfida. E il fatto che sia narrativamente avvincente è in qualche modo il pegno di questa valorizzazione sul piano ideologico. Non è certo causale che nel passo appena citato, proprio in apertura dell’intero racconto, la costruzione di una storia a partire dal “fatto”, dall’aneddoto, sia assimilata alle operazioni (smerigliare, rettificare, togliere le bavature…) con cui Faussone manipola i suoi materiali.
- 3 Cfr. Calvino, Italo, “Memoriale di Paolo Volponi”, in Id., Saggi, a cura di Barenghi, Mario, Milano (...)
- 4 Vittorini, Elio, “Industria e letteratura”, in Il Menabò di letteratura, n. 4, 1961, p. 13.
3Il libro di Levi, pubblicato nel 1978, chiude un ventennio di letteratura industriale in Italia: quella letteratura industriale di cui Vittorini, nel famoso Menabò numero 4, aveva teorizzato la necessità, e indicato le poste in gioco. Tempi stretti, Donnarumma all’assalto o La linea gotica di Ottiero Ottieri, Memoriale di Volponi, Vogliamo tutto di Balestrini hanno interpretato la transizione da una Italia rurale e contadina verso un’industrializzazione accelerata, in cui il “vecchio” continuava a coesistere avvinghiato al “nuovo”3. I testi che ho appena citato, pur nelle ovvie differenze, nelle singole scelte stilistiche e narrative, presentano alcuni elementi trasversali: nuclei tematici prelevati dalla realtà per essere sottoposti a quel “filtro di giudizio e di coscienza” che secondo Vittorini la letteratura poteva e doveva essere4.
- 5 Balestrini, Nanni, Vogliamo tutto (1971), Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 13 e p. 65.
4Prima di tutto, la grande fabbrica, luogo segregato, incombente, ostile, “ansimante”, come lo definisce Volponi; ma anche spazio che concentra e unisce chi lo abita. Poi, l’operaio (maschio e immigrato, nella maggior parte dei casi), nuovo soggetto antropologico: l’operaio fordista, quello che è stato anche chiamato operaio massa, che – come dichiara il narratore-protagonista di Vogliamo tutto – può “fare ugualmente tutti i lavori sulla catena”, perché “alla linea […] non è questione di imparare ma di abituarti la muscolatura. Di abituarla allo sforzo con quei movimenti con quel ritmo”5. E ancora, una nuova condizione, che è insieme economica ed esistenziale: l’alienazione, il rapporto con la macchina, l’assimilazione del mondo umano al mondo meccanico, il lavoro non solo come sfruttamento ma come espropriazione (del tempo, della vita) in nome dei ritmi produttivi e del profitto, come spersonalizzazione, disumanizzazione nel gesto ripetitivo del modello taylorista. Infine, la conflittualità, che fa di quel soggetto antropologico un soggetto politico e culturale, che produce coscienza e trasforma la somma degli individui in classe; che permette di stare dentro la fabbrica affermando al tempo stesso di essere altro rispetto alla fabbrica. Elementi che ritroviamo anche nel cinema, il quale ha capito subito (e Chaplin prima degli altri) che l’industria meccanica è visibile, fatta di ingranaggi mastodontici e di movimenti che occupano lo spazio. Penso soprattutto a Omicron (1963) di Ugo Gregoretti, e soprattutto a La classe operaia va in paradiso (1972) di Elio Petri: film acido nei suoni e nei colori, che inizia con il tic tac dell’orologio già sui titoli di testa e poi, dopo il risveglio di Lulù (il personaggio interpretato da Gian Maria Volonté), con un’inquadratura di grande potenza mostra gli operai che entrano in fabbrica lungo un viale innevato, delimitato da un cancello, come in un lager.
- 6 Significativamente, un’analoga mappa di Mirafiori compare anche nelle prime pagine del saggio di Gi (...)
- 7 Cfr. Revelli, Marco, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1989, p. 44 e passim.
5Nel libro di Balestrini, la fabbrica ha un nome, Fiat: Vogliamo tutto si apre su una dettagliata piantina degli stabilimenti Mirafiori, sorta di zona franca tra realtà e rappresentazione6. E la Fiat è stata, al suo apogeo, non solo la più grande fabbrica d’Europa (è quanto si dice comunemente di Mirafiori), ma il simbolo per eccellenza dell’industria meccanica; l’elevazione al quadrato, l’iperbole di tutto quanto abbiamo detto. La fabbrica della gerarchia ferrea, dei ritmi insostenibili, della produttività individuale quasi raddoppiata tra il 1960 e il 1968; esempio di taylorismo esasperato, di taylorismo puro, caratterizzato da una grandissima concentrazione di forza lavoro dequalificata, dove più del 70 per cento degli operai era impiegata alla catena di montaggio, dove le operazioni lungo la linea erano rigidamente interdipendenti, dove si orinava nelle scocche perché non veniva concesso il tempo sufficiente per andare al gabinetto. Ma la Fiat è anche la fabbrica dell’antagonismo operaio, di un’identità fondata sul conflitto, di una lotta che si modella sullo stesso ciclo della catena di montaggio sovvertendone dall’interno la legge, perché vista la rigidità lineare del sistema, poche decine di operai potevano bloccare larghi segmenti della produzione7.
6Se è vero, allora, che La chiave a stella chiude simbolicamente la stagione della letteratura industriale, lo fa operando un rovesciamento, annunciando – forse inconsapevolmente – il declino di quel mondo. Faussone, prima di diventare montatore, lavorava alla Lancia (acquisita dalla Fiat nel 1969), alla catena di montaggio. Ma adesso si muove individualmente di cantiere in cantiere, gira addirittura per il mondo: è libero e solo. Nel libro di Levi la fabbrica è scomparsa, e così la segregazione ma anche la dimensione collettiva. Inoltre Faussone, con le sue competenze, la sua creatività, la consuetudine a svolgere operazioni complesse, a confrontarsi con l’imprevisto, pur se rimane un salariato (lavora infatti per una non meglio identificata “azienda”), è l’antitesi dell’operaio fordista intercambiabile, forza lavoro anonima. Scomparsa dunque l’alienazione, ma anche qualunque idea di conflittualità: Faussone trova il suo riscatto nella professionalità, non nella lotta di classe.
7Il libro di Levi non è privo di qualche ambiguità (Frederic Jameson chiederebbe subito: per chi lavora Faussone? A cosa servono i derrick che monta? Allo sfruttamento di risorse? E a beneficio di chi?…). Coglie però contraddizioni importanti di quella classe operaia che non era mai stata un blocco monolitico, e che nel 1978 si stava già sfaldando o comunque radicalmente trasformando, attraversata da differenze di genere, di cultura, di reddito, di età, di aspettative e desideri sempre meno componibili.
- 8 Pasolini, Pier Paolo, “Bozzetto”, in Id., Tutte le poesie, a cura di Siti, Walter, Milano, Mondador (...)
- 9 Cfr. Gallino, Luciano, “Tute blu. Quel che resta di un mito”, in La Repubblica, 20 gennaio 2006.
8In ogni caso, ciò che allora era letteratura industriale, oggi ci appare piuttosto archeologia industriale, come quegli opifici dismessi in cui ci si imbatte frequentemente, luoghi di processi produttivi obsoleti e dimenticati, vestigia di un mondo che non è più il nostro. In una lunga poesia scritta tra il 1969 e il 1970, Pasolini concludeva una sorta di storia dell’Italia moderna con un verso profetico: “Gli operai hanno ancora pochi anni di tempo”8. Quegli anni, sembrerebbe, se li sono giocati tutti, fino all’ultima goccia. Intendiamoci, non è che si siano estinti uno dopo l’altro. Benché diminuiti numericamente in maniera massiccia, in Italia ce ne sono ancora alcuni milioni, che producono immense quantità di manufatti ogni anno9. Anche la fabbrica esiste ancora, sebbene diversamente strutturata e organizzata. O spostata lontano da noi, sottratta alla geografia urbana dell’Occidente. Perché noi siamo nella società post-fordista, nell’economia della conoscenza, delle merci immateriali, una società dove il settore dell’entertainment produce più posti di lavoro e un fatturato maggiore del mercato dell’auto. E gli operai sono ormai considerati marginali, residuali: irretiti nel ciclo coatto del consumo, decentrati e polverizzati da un trentennio di rivoluzione tecnologica, ristrutturazione, delocalizzazione. La vicenda dei sette morti per un incendio nelle acciaierie Thyssen Krupp di Torino (ex Fiat ferriere) nel 2006, a poche settimane dalla chiusura definitiva, è atrocemente simbolica: lo smantellamento, lo sgretolamento progressivo è avvenuto mentre la gente ancora lavorava a ciclo continuo, su tre turni, perdendo giorno dopo giorno i già molto scarsi margini di sicurezza su cui poteva contare; lo stabilimento diventava un pezzo di archeologia industriale con gli operai ancora dentro. Su un registro meno tragico, Gad Lerner, in un libro-inchiesta su ciò che restava degli operai Fiat alla fine degli anni Ottanta, scriveva:
- 10 Lerner, Gad, Operai, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 12.
Operai con l’acqua alla gola perché il loro milione al mese deve bastare al mantenimento di tutta la famiglia, e un buon mestiere da vendere sul mercato non ce l’hanno. Operai che la casa se la sono comprata con vent’anni di lavoro doppio. […] Operai distanziati decine di metri l’uno dall’altro a sorvegliare in officine semidesertiche la macchina che fa tutto da sé. Operai raccolti a grappoli lavorando a braccia alzate nel montaggio finale sottoscocca. Operai intraprendenti ricercati per le loro mani d’oro dai padroni delle piccole e medie fabbriche in cui ormai si guadagna di più. Operai azzittiti dalla consapevolezza di essere inutili ferrivecchi tenuti lì sulla linea solo perché al momento costano meno di un robot10.
- 11 Nove, Aldo, “Un’epica pausa caffé tra guardie giurate e baristi innamorati”, recensione a Pausa caf (...)
9Alla luce delle esperienze più recenti, questa lista potrebbe essere ampiamente integrata: ma sarebbero comunque gli operai sopravvissuti alla fine della classe operaia. È lei che non esiste più, dissolta da una vittoria del capitale che sembra senza appello. Sostituita dal magma informe delle risorse umane: collaboratori a progetto, interinali, stagisti, con contratto di formazione lavoro, talvolta nemmeno più salariati nel senso classico del termine, eppure ancora lavoratori e lavoratrici, ma in una condizione frammentata nel tempo e nello spazio, inafferrabile, quasi clandestina. Insomma, i precari, flessibili fino all’agonia: “Un mondo – ha scritto Aldo Nove – dove non esistono categorie di lavoratori ma individui che vivono il loro personale dramma […] all’interno di una struttura esplosa in mille realtà”11.
- 12 Woolf, Virginia, “Il signor Bennet e la signora Brown”, in Ead., La signora dell’angolo di fronte, (...)
- 13 Sulla vertenza Fiat dell’autunno 1980 è stato scritto molto. Oltre al libro già citato di Marco Rev (...)
10In Italia, l’inizio del processo i cui esiti sono quelli evocati da Aldo Nove ha una data: convenzionale come tutte le date in cui si sintetizzano le transizioni storiche ma ad alto coefficiente simbolico. In un saggio sulle trasformazioni del romanzo all’inizio del Novecento, Virginia Woolf scrive a un certo punto che la natura umana era cambiata intorno al dicembre 191012. E noi potremmo dire qualcosa di analogo: che in Italia tutto ha cominciato a cambiare intorno all’ottobre 1980. È la data di uno degli scontri più radicali che si siano dati tra capitale e lavoro; e di una sconfitta senza precedenti della classe operaia. I fatti sono noti. Nel settembre 1980, durante la vertenza per il rinnovo del contratto, la Fiat annuncia il licenziamento di 15.000 lavoratori. Si parla di liste di proscrizione: nascondendosi dietro la “crisi”, dietro la necessità di salvare profitti e competitività sacrificando la forza lavoro, l’azienda vuole liquidare il sindacato di fabbrica. Gli operai iniziano una lotta che durerà 35 giorni, con il sostegno sempre ambiguo delle tre confederazioni nazionali. La conflittualità è altissima, gli stabilimenti presidiati, la produzione bloccata mentre si cerca un accordo con la mediazione del governo. Quell’accordo sembra forse sul punto di essere raggiunto, quando avviene un fatto assolutamente inedito: alcune decine di migliaia di impiegati, quadri intermedi, capi scendono in piazza per difendere il loro diritto di andare a lavorare (è quella che passerà alla storia come “la marcia dei 40.000”, e che diventerà una vera e propria icona degli anni Ottanta in Italia). Il giorno dopo, le tre confederazioni firmano un accordo al ribasso che prevede la messa in cassa integrazione di 23.000 lavoratori con vaghe promesse di reintegro che non verranno mai mantenute13.
- 14 Un solo esempio tra i molti che si potrebbero citare: “Gli uomini nostri, Annibaldi, Figurati, Magn (...)
- 15 Questo il giudizio attribuito da Romiti a Beniamino Andreatta, allora ministro del tesoro: “l’unico (...)
- 16 Revelli, Marco, Lavorare in Fiat, cit., p. 12.
11Il mio riassunto è necessariamente lacunoso. Ma più che i fatti contano qui il loro valore e il loro significato. La sigla dell’accordo dell’Ottanta è l’inizio della grande ristrutturazione del capitale in Italia, di cui la Fiat ancora una volta è il simbolo e l’avanguardia: una ristrutturazione fondata sull’automazione (il sogno di un fabbrica senza uomini), sull’abbattimento dei costi e sull’incremento dei ritmi produttivi in nome di una forza lavoro che deve essere (o tornare ad essere) completamente flessibile alle esigenze dell’azienda, sullo smantellamento definitivo del potere di controllo che il sindacato aveva conquistato con l’autunno caldo. Tutto questo nel quadro dell’avvio dell’offensiva liberista (il primo mandato di Margaret Thatcher va dal 1979 al 1983). E se la mia ricostruzione può sembrare di parte, basta andare a leggersi l’intervista di Giampaolo Pansa a Cesare Romiti per rendersi conto che quello della Fiat è stato un progetto a lungo termine perseguito in piena consapevolezza14. Del resto, la vertenza dell’Ottanta fu vissuta da tutti i suoi attori come una sorta di confronto finale e appare oggi, nello sguardo retrospettivo, un punto di svolta15: è lì che cominciano – come ha scritto Marco Revelli – “il primato dell’Efficienza d’impresa come fattore discriminante, il Mercato come vincolo e come criterio di verifica unico […], il Profitto come condizione di sopravvivenza, la Tecnica come funzione e misura unica del progresso”16. Formule e imperativi che in seguito ci sarebbero diventati molto familiari.
12Ma la vertenza Fiat degli anni Ottanta è anche una vicenda che ci pone di fronte un problema cruciale, che è insieme politico, storico, narrativo. In altre parole, quella vicenda è per intero attraversata da una contraddizione, da una tensione irrisolvibile. Da una parte abbiamo uno scontro fra una serie di attori (le organizzazioni sindacali, i lavoratori, la dirigenza Fiat), e quindi dei soggetti, delle responsabilità, delle possibilità di scelta, dei rapporti di forza che non sono mai dati ma bensì dinamici, esposti al rischio e all’imprevedibile: e infatti si legge spesso, a proposito della vertenza Fiat, che i sindacati non avrebbero dovuto firmare l’accordo, che gli operai non avrebbero dovuto scioperare a oltranza oppure, al contrario, che avrebbero dovuto occupare la fabbrica. Dall’altra, abbiamo dei processi che appaiono in qualche modo ineluttabili: prima fra tutte, l’innovazione tecnologica, il passaggio dalla meccanica all’elettronica, con la crisi strutturale del movimento operaio che questa comportava, la perdita di centralità dell’elemento umano, il tramonto del modello taylorista (per non parlare dei cambiamenti in atto all’interno della stessa classe operaia, ineluttabili anche quelli, che ne sgretolano l’omogeneità: dalla crescita della scolarizzazione all’ingresso prorompente in fabbrica delle donne). C’è, insomma, anche l’idea che l’esito dello scontro fosse già scritto, che la lotta alla Fiat marciasse in direzione opposta a quella della storia. Che nel progetto di ristrutturazione fatto in nome della competitività, e dunque della “vita” dell’azienda, fossero in realtà già contenuti i germi della de-industrializzazione che segnerà la società italiana a partire dagli anni Novanta. Come – allora – possiamo o dobbiamo raccontare questa storia?
13Comunque stiano le cose, si tratta di un evento che segna la chiusura di un ciclo culturale della società italiana, l’aprirsi di scenari completamente nuovi in cui nulla sarebbe rimasto come prima. Dopo la sconfitta alla Fiat nell’Ottanta, non sarebbe più stato possibile scrivere i libri che erano stati scritti e realizzare i film che erano stati realizzati sul lavoro in fabbrica.
- 17 Orletti, Mauro, Mi sento già molto inserito, Torino, Zandegù editore, 2009, p. 54.
14Eppure, nella letteratura e nel cinema che possiamo definire post-industriali, la fabbrica resiste. Marginalizzata sul piano della realtà, riemerge curiosamente nel mondo raccontato. Certo, si tratta di una fabbrica molto diversa rispetto a quella che ci consegnano le pagine di Ottieri, Volponi o Balestrini, in cui i nuclei tematici che avevamo individuato si presentano stravolti, decentrati o riconfigurati; e i cui altri aspetti vengono portati alla ribalta. Così, per esempio, in Mi sento già molto inserito di Mauro Orletti, il cui sottotitolo significativamente è “Cronache dalla fabbrica (dis)integrata”, per quanto la vicenda si svolga negli edifici della Società Anonima Veicoli Industriali di Torino, il protagonista non è un operaio ma un “colletto bianco” che osserva la fabbrica dal punto di vista degli uffici, “la riserva in cui sono confinati gli impiegati”17, e per il quale, dunque, capannoni, impianti, processi produttivi costituiscono un mondo remoto, esotico e quasi incomprensibile; inoltre è uno stagista, e in quanto tale mantiene sempre una percezione esterna, in qualche modo straniata, precaria (in senso proprio e metaforico) dell’intero universo aziendale. E se nel romanzo Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio ci sono ancora le linee di assemblaggio, le postazioni ad alta tossicità, l’incremento dei ritmi produttivi, la struttura gigantesca, oppressiva, tentacolare, questa struttura è abitata da individui isolati, parcellizzati, che lottano per essere assunti allo scadere del contratto di formazione lavoro, dove qualunque conflittualità è spenta da una competitività feroce, dove la coscienza di classe non è che un ricordo.
- 18 Rea, Ermanno, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002, p. 16.
- 19 Ibid., p. 142.
15La fabbrica è presente ma come vuoto, come entità negativa, come ombra o come rovina nella Dismissione di Ermano Rea, che mette in scena – alla lettera – lo smantellamento, lo smontaggio pezzo a pezzo (“bullone numero uno, bullone numero quattro, bullone numero trenta; farfalla numero centotrentadue…”18) degli stabilimenti Ilva di Bagnoli, che ci consegna l’epopea di come scompare materialmente la fabbrica e, insieme ad essa, “una civiltà, una cultura, una forma mentis”19. Secondo le parole di Marco Revelli, dobbiamo vedere nella Dismissione
- 20 Revelli, Marco, “La rivincita del disordine”, recensione a La dismissione di Ermanno Rea, in Carta (...)
un grande racconto epocale sulla fine di un mondo – il mondo delle fabbriche e degli operai, del gigantismo industriale e dei suoi movimenti di massa […]. E anche in qualche modo […] un tentativo di bilancio “globale” – e appunto “postumo” – della grandezza (che è indubbia) e delle miserie (che pur ci sono) di quel mondo e di quella lunga esperienza20.
- 21 Rea, Ermanno, La dismissione, cit., p. 192 (corsivo mio).
- 22 “Chi dice che una macchina non possa mostrarsi nei nostri confronti anche compassionevole? O, al co (...)
16Ma proprio per questo, proprio perché si tratta di un mondo al tramonto, di un mondo in liquidazione, letto attraverso la nostalgia, la perdita, la morte (a un certo punto il narratore parla dell’Ilva ancora attiva come di “questo mitico prima”21), la rappresentazione della fabbrica sembra cambiare di segno: Buonocore, il protagonista-narratore scelto da Rea come centro prospettico dell’intero racconto, ama il suo lavoro in maniera addirittura ossessiva e somiglia molto più al Faussone della Chiave a stella che ai personaggi di Volponi o Balestrini (con la differenza – decisiva – che Buonocore deve smontare, decostruire, distruggere); le macchine non sono più strumenti di espropriazione e di violenza, ma emblemi di ordine, disciplina, razionalità in un universo divorato dal caos; e se la letteratura e il cinema industriali ci mostravano gli individui asserviti alla macchina, consumati e disumanizzati dalla macchina, qui è la macchina ad essere investita di umanità, a farsi specchio, proiezione e giudice di chi la manipola22.
17Se la fabbrica resiste, dunque, si tratta spesso di una resistenza ambigua: come se oggi solo la sua disgregazione o la sua fine fossero passibili di sviluppo narrativo (un ossimoro solo apparente). Lo conferma un film come Il posto dell’anima di Riccardo Milani (2006), che racconta ancora una volta una liquidazione: la chiusura e la delocalizzazione di un’industria di pneumatici.
- 23 La “deroga” è costituita dalla scena finale, datata 2007, che ci mostra il Lingotto diventato centr (...)
- 24 Sulla vertenza Fiat dell’Ottanta, si vedano anche il film di Guido Chiesa e Daniele Vicari, Non mi (...)
18Fa eccezione Signorina Effe di Wilma Labate (2007), che riporta sulla scena – con fedeltà storica e ampio ricorso a fonti d’archivio – proprio la lotta operaia alla Fiat dell’ottobre 1980; che dunque non evoca la fabbrica residuale del terzo millennio ma torna al punto di transizione che abbiamo detto, fissa il momento in cui il mondo era ancora quello di prima e nello stesso tempo stava già diventando un altro. Il film è ispirato al documentario Signorina Fiat girato da Giovanna Boursier nel 2001, che narra la vicenda umana e professionale di un’impiegata, Maria Teresa Arisio, lungo l’arco di più di trent’anni, dal 1961 al suo licenziamento nel 1994. E infatti anche il personaggio centrale del film è una giovane impiegata, Emma, che lavora nel settore informatico. Ma rispetto al suo palinsesto, Wilma Labate compie una scelta cruciale, una sorta di simbolica zoommata con cui ritaglia un singolo segmento temporale: i trentacinque giorni, dall’annuncio dei licenziamenti alle assemblee per ratificare l’accordo con l’azienda firmato dai sindacati, senza un solo flash back, ma anzi con un racconto che si vuole – salvo un’unica deroga23 – programmaticamente lineare, scandito quasi giorno per giorno dai notiziari televisivi e dagli inserti d’archivio24. E del resto l’argomento del film non è il lavoro, e nemmeno la fabbrica: è la lotta operaia (tanto che il film comincia proprio nel momento in cui, all’annuncio dei licenziamenti, il lavoro si ferma).
- 25 Il personaggio di Emma sembra del resto concentrare in sé molte delle contraddizioni che attraversa (...)
19In quei trentacinque giorni si consuma non solo la vertenza Fiat, ma – in un doppio tracciato narrativo che mette in parallelo vicenda collettiva e vicenda individuale, che stabilisce tra questi due piani una continua staffetta – la storia d’amore tra l’impiegata Emma e l’operaio Sergio e insieme l’avvio di quel processo che dovrà portare alla fine della classe operaia25. E la forza del film sta tutta in questo svolgimento parallelo. La storia d’amore tra Emma e Sergio irrompe insieme allo sciopero, vive nello spazio aperto dalla conflittualità, in quello stato eccezionale, in quella sospensione della normalità, in quella rottura di tutte le leggi, e di tutte le barriere rappresentata dai trentacinque giorni di lotta alla Fiat. Con la sconfitta, lo spazio si chiude, la storia d’amore finisce. Non a caso, nel loro ultimo incontro, la mattina del “ritorno all’ordine”, prima di varcare i cancelli ormai non più presidiati, Emma dice a Sergio: “Volevo vederti per l’ultima volta”. E poi aggiunge, senza soluzione di continuità, come seguendo un nesso causale tacito ma inequivocabile: “Hanno vinto, Sergio”.
20Giunti a questo punto, vale forse la pena di porsi una domanda: perché ancora la fabbrica? Perché la letteratura e il cinema indugiano su un mondo industriale considerato ormai tramontato, o che comunque ha perso la sua centralità? Perché scegliere la fabbrica invece di un call center, di uno studio televisivo, di una scuola privata, di una catena di distribuzione di abbigliamento a basso costo, di un supermercato o di un cantiere con qualche immigrato che cade da un’impalcatura e ci lascia la pelle ? Così risponde Sergio Bologna, in un articolo apparso alcuni mesi fa sul quotidiano Il Manifesto. Le sue riflessioni riguardano la fotografia, ma possono essere facilmente estese al cinema e anche alla letteratura:
- 26 Bologna, Sergio, “Basta film sui call center”, Il Manifesto, 10 ottobre 2008.
Guardate l’immagine […] di un operaio alla catena di montaggio, di una tuta blu qualsiasi, vi dice subito qualcosa, vi trasmette di colpo un riferimento di tempo e di luogo, suscita in voi memorie di dinamiche sociali, comportamenti collettivi. Le immagini della classe operaia del fordismo parlano da sole, hanno nel tempo accumulato una significatività, una forza di comunicazione tale che ne fa dei veicoli di valori, di culture, di storia26.
- 27 Bauman, Zigmunt, Intervista sull’identità, a cura di Vecchi, Benedetto, Roma-Bari, Laterza, 2003, p (...)
21All’origine della “resistenza” della fabbrica ci sarebbe dunque un problema di rappresentabilità (e di senso). L’industria fordista, e i suoi operai, non sono solo visibili, ma eloquenti, immediatamente significanti, segni capaci di alludere a un’intera storia, di evocare un’identità individuale che acquista senso e valore dentro processi collettivi: per determinarli, per trasformarli o per sabotarli. E se è vero, come ha affermato Zygmunt Bauman, che “l’appartenenza e l’identità non sono scolpite nella roccia, non sono assicurate da una garanzia a vita, che sono in larga misura negoziabili e revocabili”27, e che probabilmente lo sono sempre state, la condizione fluida, caratteristica, secondo Bauman, di questo momento storico, non ha niente di liberatorio. La fabbrica, gli operai, anche residuali, sconfitti, esplosi, privi di coscienza di classe, rimandano allora a un mondo non necessariamente migliore ma comunque leggibile, riconoscibile, rappresentabile.
- 28 Penso soprattutto al film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti (2008), tratto dal libro di Michela (...)
22Al polo opposto, c’è il mondo evocato da Aldo Nove: la nuova forza lavoro del terziario, un ceto para-impiegatizio che ha perso non solo i privilegi ma anche i diritti; più intercambiabile (e forse anche più ricattabile) del glorioso operaio massa di lontana memoria. Il mondo che troviamo in Cordiali saluti o Mi spezzo ma non m’impiego di Andrea Bajani, in Mi chiamo Roberta, ho 40 anni e guadagno 250 euro al mese dello stesso Aldo Nove, in Il mondo deve sapere di Michela Murgia, in Lotta di classe di Ascanio Celestini, in Un anno di corsa di Giovanni Accardo. Il lavoro nella società post-fordista è una materia che si ha bisogno di raccontare, di denunciare, scandagliando i territori di confine tra testimonianza e finzione, tra saggio e romanzo. E anche il cinema scopre le potenzialità narrative dell’era della flessibilità totale, spesso concentrate intorno a quella “figura” emblematica che sembra condensare tutte le contraddizioni e tutto l’orrore della nostra contemporaneità: il call center28.
- 29 Vittorini, Elio, “Industria e letteratura”, cit., p. 19.
23È insomma il lavoro – nelle sue forme nuove e inedite – che entra ancora una volta come tema forte nella letteratura (e nel cinema), rispondendo probabilmente a una necessità storica analoga a quella rivendicata a suo tempo da Vittorini: rendere conto del mondo che cambia attraverso la scrittura. Ma nel celebre numero del Menabò, lo stesso Vittorini metteva in guardia contro un rischio: quello dell’iconografia, vale a dire di un’assunzione della realtà industriale come semplice materiale tematico, raccontando di fabbriche e aziende “sempre entro dei limiti letterariamente ‘preindustriali’”, oppure osservando “le vecchie cose del mondo preindustriale […] con gli occhi dei padri e dei nonni come se l’industria non le avesse, investendole dei suoi ritmi, modificate”29. E di fronte a un analogo rischio di iconografia si trova anche la recente letteratura sul lavoro, a volte troppo schiacciata su un investimento esclusivamente tematico e su un’unica scelta stilistica, quella dell’inchiesta, della docufiction (come se l’urgenza di documentare, di svelare, e così decostruire il discorso ideologico che fonda la prassi neo-liberista fosse tanto stringente da fare della ricerca formale quasi una zavorra).
24Non è sempre così. Non si abbandona certamente a tentazioni iconografiche Giorgio Falco, che in Pausa Caffè non solo censisce con inesauribile acribia gli innumerevoli e grotteschi contesti occupazionali dell’Italia contemporanea, lavori senza significato e senza prospettive, ma registra l’impatto che tutto questo produce sulla vita quotidiana, le relazioni interpersonali, il linguaggio, le abitudini; che porta la condizione frantumata e volatile fin dentro l’impianto narrativo per farlo esplodere, rifiutandosi di tessere una storia e lasciando invece che le schegge, i frammenti si succedano gli uni agli altri senza direzione apparente.
25E non lo fa Christian Raimo in un breve racconto dal titolo emblematico, Sono come tu mi vuoi, in cui quella condizione non si lascia – alla lettera – nemmeno nominare, obbligando la voce narrante a tendere fino al limite della a-grammaticalità le possibilità del linguaggio, sopprimendo ogni traccia che permetta di ricostruire un’identità (tranne quella attraverso cui si autodesigna come voce femminile, tanto più significativa perché apre volutamente una distanza tra autore e narratore):
- 30 Raimo, Christian, Sono come tu mi vuoi, in Susani, Carola, Raimo, Christian, Pincio, Tommaso et al. (...)
Io sono specializzata in, che non riesco a capire se sia una qualifica che effettivamente vale nel mercato del lavoro ma, avendo cominciato a lavorare che avevo neanche, non mi posso lamentare del fatto che oggi a distanza di, la mia formazione è stata comunque articolata, piena di esperienze di tutti i tipi, come per esempio. Ma dovendo ripercorrere dall’inizio il mio curriculum, [..] devo ritornare al momento in cui. / Allora già frequentavo da un anno un corso regionale per diventare, mi alzavo tutte le mattine per andare da casa mia fino a, che si trovava dall’altra parte della, e già allora, […] mentre studiavo, tenevo una copia di, proprio lì accanto, e sottolineavo tutti i giorni i vari annunci per30.
26Scrivere eliminando quasi sistematicamente le unità di determinazione semantica equivale a svuotare l’azione di ogni significato, sospenderla al di fuori dei parametri di tempo, spazio, modo, mezzo, fine: un’azione che non è più situata, non è ancorata a nulla, semplicemente non è. Equivale a narrare una storia che è di tutti ma in realtà di nessuno (qualcosa come una virtualità disforica) in cui la soggettività non solo non è più una variabile che entra nella dinamica del lavoro salariato, ma è stata completamente evacuata. E significa anche dire quanto il lavoro (o il non-lavoro, il quasi-lavoro, il lavoro invisibile, il lavoro atteso, cercato, rincorso…) sia ancora centrale nella costruzione dell’identità. Così si conclude il racconto di Raimo:
- 31 Ibid., p. 8
Attualmente sono disoccupata, anche se mi accade ogni tanto di lavorare […]; e nel frattempo […] diciamo che sto cercando di riequilibrarmi e almeno per adesso ho deciso questo: di staccare la spina, e che per un tot di ore al giorno, non ci sono per nessuno, faccio finta di non esistere, e se qualcuno mi vuole, deve venire qui, deve venire lui a cercarmi, e davanti a me, in faccia, deve dirmi per favore cosa sono31.
27È questa oggi la sfida: misurarsi con un’identità a rischio di dissoluzione, con una nebulosa che continua paradossalmente a rivendicare, magari dalla letteratura, una qualsivoglia forma di riconoscimento.
Note
1 Levi, Primo, La chiave a stella [1978], Torino, Einaudi, 1991, p. 3.
2 Raboni, Giovanni, “Riesce a creare suspense col montaggio di una gru”, in Primo Levi, Riga, XIII, 1997, p. 128.
3 Cfr. Calvino, Italo, “Memoriale di Paolo Volponi”, in Id., Saggi, a cura di Barenghi, Mario, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 1273.
4 Vittorini, Elio, “Industria e letteratura”, in Il Menabò di letteratura, n. 4, 1961, p. 13.
5 Balestrini, Nanni, Vogliamo tutto (1971), Roma, DeriveApprodi, 2004, p. 13 e p. 65.
6 Significativamente, un’analoga mappa di Mirafiori compare anche nelle prime pagine del saggio di Giachetti, Diego e Scavino, Marco, La Fiat in mano agli operai. L’autunno caldo del 1969, Pisa, BFS edizioni, 1999, p. 12.
7 Cfr. Revelli, Marco, Lavorare in Fiat, Milano, Garzanti, 1989, p. 44 e passim.
8 Pasolini, Pier Paolo, “Bozzetto”, in Id., Tutte le poesie, a cura di Siti, Walter, Milano, Mondadori, 2003, vol. II, pp. 293-297. La poesia fa parte dell’“Appendice” a Trasumanar e organizzar [1971].
9 Cfr. Gallino, Luciano, “Tute blu. Quel che resta di un mito”, in La Repubblica, 20 gennaio 2006.
10 Lerner, Gad, Operai, Milano, Feltrinelli, 1988, p. 12.
11 Nove, Aldo, “Un’epica pausa caffé tra guardie giurate e baristi innamorati”, recensione a Pausa caffé di Giorgio Falco, La Stampa – Tuttolibri, 8 maggio 2004.
12 Woolf, Virginia, “Il signor Bennet e la signora Brown”, in Ead., La signora dell’angolo di fronte, Milano, Il Saggiatore, 1979, p. 280.
13 Sulla vertenza Fiat dell’autunno 1980 è stato scritto molto. Oltre al libro già citato di Marco Revelli (Lavorare in Fiat), si vedano almeno: Pesce, Adele, “La difficile utopia del possibile”, in Inchiesta, n. 48, novembre-dicembre 1980, pp. 3-21; Perotti, Piero, Revelli, Marco, Fiat autunno 1980. Per non dimenticare, Torno, CRIC, 1986; Romiti, Cesare, Pansa, Gianpaolo, Questi anni alla Fiat, Milano, Rizzoli, 1988; Castronovo, Valerio, Fiat, 1899-1999, un secolo di storia italiana, Milano, Rizzoli, 1999; Gianotti, Lorenzo, Gli operai della Fiat hanno cento anni, Roma, Editori Riuniti, 1999; Polo, Gabriele, Sabattini, Claudio, Ristrutturazione italiana, Roma, Manifestolibri, 2000.
14 Un solo esempio tra i molti che si potrebbero citare: “Gli uomini nostri, Annibaldi, Figurati, Magnabosco, passavano la vita a far trattative a Roma e a Torino. Ne valeva ancora la pena? Io cominciavo a dubitarne. Così, quando nel 1980 aprimmo le trattative prima sui licenziamenti e poi sulla cassa integrazione per i 23 mila, ci dicemmo che qualunque cosa avessimo potuto concedere, era tutta roba sprecata, perché un trauma doveva esserci. Sì, ci doveva essere un trauma” (Romiti, Cesare, Pansa, Gianpaolo, Questi anni alla Fiat, cit., p. 102).
15 Questo il giudizio attribuito da Romiti a Beniamino Andreatta, allora ministro del tesoro: “l’unico fatto politico vero degli ultimi dieci anni è stata la svolta alla Fiat” (Ibid., p. 136).
16 Revelli, Marco, Lavorare in Fiat, cit., p. 12.
17 Orletti, Mauro, Mi sento già molto inserito, Torino, Zandegù editore, 2009, p. 54.
18 Rea, Ermanno, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002, p. 16.
19 Ibid., p. 142.
20 Revelli, Marco, “La rivincita del disordine”, recensione a La dismissione di Ermanno Rea, in Carta settimanale, n. 35, 2002, versione elettronica: http://archivio.carta.org/rivista/settimanale/2002/35/35revelli.htm. (consultato il 5 agosto 2009). Su alcune delle questioni messe in luce a proposito del romanzo di Rea, si veda anche l’appassionato bilancio stilato da Revelli, Marco, in Oltre il Novecento, Torino, Einaudi, 2001.
21 Rea, Ermanno, La dismissione, cit., p. 192 (corsivo mio).
22 “Chi dice che una macchina non possa mostrarsi nei nostri confronti anche compassionevole? O, al contrario, dura, ostile, astiosa? […] Io non intendo attribuire un’anima alla macchina, come potrebbe accadere a qualcuno di troppa immaginazione. […] l’umanità della macchina è prima di tutto un riflesso della nostra umanità. Se c’è, c’è. Se non c’è, che cosa può fare la macchina se non farsi essa stessa specchio della nostra stupidità diventando a sua volta cieca e brutale?” (ibid., pp. 117-118).
23 La “deroga” è costituita dalla scena finale, datata 2007, che ci mostra il Lingotto diventato centro commerciale, Emma che cammina tenendo in mano alcune buste, Sergio diventato tassista.
24 Sulla vertenza Fiat dell’Ottanta, si vedano anche il film di Guido Chiesa e Daniele Vicari, Non mi basta mai (2001), e il documentario di Piero Perotti e Pier Milanese, Fiat autunno ’80 (2000).
25 Il personaggio di Emma sembra del resto concentrare in sé molte delle contraddizioni che attraversano la classe operaia dopo l’autunno caldo: intanto è una donna; poi è altamente scolarizzata (si sta laureando in matematica); appartiene a una famiglia operaia (immigrata dal sud) ma è un’impiegata, fidanzata con un dirigente dell’azienda; è dunque nel mezzo di un percorso di mobilità sociale che mette violentemente in discussione cultura, tradizioni, appartenenze, identità.
26 Bologna, Sergio, “Basta film sui call center”, Il Manifesto, 10 ottobre 2008.
27 Bauman, Zigmunt, Intervista sull’identità, a cura di Vecchi, Benedetto, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 6.
28 Penso soprattutto al film di Paolo Virzì Tutta la vita davanti (2008), tratto dal libro di Michela Murgia Il mondo deve sapere, e al documentario di Ascanio Celestini Parole sante (2007), sulla lotta dei lavoratori precari del call center Atesia. Ma non ci sono solo i call center: vale la pena di segnalare almeno Volevo solo dormirle addosso (2004), di Eugenio Cappuccio, storia di un giovane formatore del personale di una multinazionale a cui viene dato l’incarico di ridurre del trenta per cento i dipendenti, e diventa così ciò che nel gergo aziendalistico si chiama un killer; o, ancora, il mobbing raccontato in Mi piace lavorare (2003) di Francesca Comencini. Per un quadro più articolato sul tema del lavoro nel cinema italiano degli ultimi anni, si veda il festival “Cinema & lavoro” promosso dalla regione Umbria, che esiste dal 2003.
29 Vittorini, Elio, “Industria e letteratura”, cit., p. 19.
30 Raimo, Christian, Sono come tu mi vuoi, in Susani, Carola, Raimo, Christian, Pincio, Tommaso et al., Sono come tu mi vuoi. Storie di lavori, Roma-Bari, Laterza, 2009, p. 3.
31 Ibid., p. 8
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Notizia bibliografica
Donata Meneghelli, «Gli operai hanno ancora pochi anni di tempo? Morte e vitalità della fabbrica », Narrativa, 31/32 | 2010, 61-75.
Notizia bibliografica digitale
Donata Meneghelli, «Gli operai hanno ancora pochi anni di tempo? Morte e vitalità della fabbrica », Narrativa [Online], 31/32 | 2010, online dal 01 juin 2022, consultato il 17 mai 2025. URL: http://journals.openedition.org/narrativa/1543; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1543
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