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Quando l’azienda diventa mortale. Le “morti bianche”: narrazione e mutazione del soggetto operaio

Monica Jansen
p. 125-136

Testo integrale

  • 1 Fusco, Maria Pia, “Rabbia, dolore e polemiche morti bianche, shock in Laguna”, in La Repubblica, 5 (...)
  • 2 Corbari, Costantino, Angelo Corti (a cura di), Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavo (...)

1Nel 2008 alla Biennale di Venezia sono stati presentati due film documentari sulle cosiddette morti bianche, una tematica molto discussa in Italia dopo l’incendio del 6 dicembre 2007 alla Thyssen Krupp di Torino che ha causato la morte di sette operai, perlopiù giovani. Aprire il festival del cinema con La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti e ThyssenKrupp Blues di Pietro Balla e Monica Repetto, è stata una scelta di impegno sottolineata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha espresso “vivo apprezzamento per la particolare attenzione al dramma delle morti sul lavoro”. Nel messaggio alla Mostra del cinema Napolitano ricorda che “proprio da questa occasione di riflessione prend[e] avvio la ‘carovana per il lavoro sicuro’, promossa dall’associazione Articolo 21, che nelle sue diverse tappe collegherà idealmente i luoghi simbolo delle tragedie sul lavoro all’impegno convergente di esponenti politici, dell’associazionismo, del cinema, del teatro e del giornalismo, affinché non si abbassi mai la guardia rispetto al dramma delle morti bianche”1. Inoltre, nella prefazione a un libro teso a contribuire alla memoria dei caduti sul lavoro in Lombardia intitolato Angeli senza ali (2008), il Presidente Napolitano dichiara di assumersi il dovere “di rappresentare la Nazione anche nei suoi drammi e nella sua sete di giustizia e di sicurezza”2.

  • 3 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, Milano, Rizzoli, 2008, p. 24.
  • 4 Revelli, Marco, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Eina (...)
  • 5 Beck, Ulrich, Risk Society: Towards a New Modernity, London, Sage, 1994, p. 3.
  • 6 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 13.

2Attraverso il diretto interessamento del Presidente della Repubblica italiana, alla cultura viene delegato il compito politico e storico di conferire alla memoria delle morti bianche una dimensione nazionale. La narrazione dell’insicurezza lavorativa esprime l’esperienza individuale e collettiva di un cambiamento sociale che equivale al “mutamento antropologico” profetizzato da Pasolini3. Secondo Marco Revelli, che fa riferimento ai sociologi Ulrich Beck e Anthony Giddens, esiste una “netta discontinuità” tra la società fordista e quella postfordista, in cui il tempo nuovo si manifesta “come nuovo inizio integralmente separato da ogni passato, storico e tecnico”4. Le morti bianche segnano inoltre il passaggio individuato da Ulrich Beck tra la società industriale, caratterizzata dalla distribuzione di oggetti di consumo e dalle classi sociali, alla società di rischio, caratterizzata invece dalla distribuzione di pericoli e dall’individualizzazione5. Alla cultura spetta quindi non soltanto l’onere di ridare dignità alla memoria di chi è morto inutilmente, ma anche di colmare il vuoto che esiste tra l’immaginario collettivo del “proletariato” del passato e del “precariato” del presente. La mutazione del soggetto operaio, da rivendicatore di riscatto a oggetto di ricatto, nelle storie narrate assume spesso una dimensione generazionale. E non è un caso che i registi Calopresti e Balla sono ambedue figli di operai cresciuti a Torino. La morte bianca – termine discutibile secondo Marco Rovelli dato che “bianca” sembra riferirsi a un fatto naturale, accidentale ed esente di responsabilità – racconta una “verità negata”, un “lapsus, nella misura in cui mostra delle verità sociali che la società non vuol vedere: mostra, con lo schianto di un corpo che precipita, la verità di un sistema tutto intero, che prende, in fine, corpo. Ed è un corpo morto”6. Ragione per cui Rovelli ha intitolato il suo libro-inchiesta Lavorare uccide.

  • 7 Erll, Astrid, “Cultural Memory Studies: An Introduction”, in Erll, Astrid, Ansgar Nünning (a cura d (...)
  • 8 Beck, Ulrich, Risk Society, cit., p. 2.
  • 9 Erll, Astrid, “Literature, Film, and the Mediality of Cultural Memory”, in Cultural Memory Studies, (...)
  • 10 Ibid.

3Le narrazioni a cui Napolitano delega la messa in atto di un cambiamento di cultura, possono essere considerati i media che insieme costituiscono e costruiscono la memoria culturale, intesa in senso ampio come l’interazione tra contesti socio-culturali del presente e del passato7. Si tratta quindi di costruire una cultura dinamica che potrebbe corrispondere alla modernità riflessiva teorizzata da Beck in cui un cambiamento strutturale comporta anche l’individuazione degli agenti progressivamente sempre più liberi da tali strutture e quindi in grado di dare attivamente forma al processo di modernizzazione8. Tale idea si sposa bene con il concetto di “carovana”, promosso inoltre da un’associazione che difende la libertà di stampa costituzionale (articolo 21), che a sua volta incarna perfettamente l’idea espressa da Astrid Erll di uno spostamento dell’attenzione negli studi della memoria culturale: dai media intesi nella loro dimensione temporale di archivio, si passa ai media legati invece alla dimensione spaziale della circolazione per raggiungere quasi simultaneamente un largo pubblico9. Ciò implica anche uno spostamento dal concetto di cultura alta a quello di cultura popolare. Erll distingue tre condizioni che i media dovrebbero soddisfare per poter attuare una memoria culturale incisiva: la “retorica della memoria collettiva” intra-mediale, le dinamiche inter-mediali, e infine i contesti pluri-mediali10.

  • 11 Rovelli, Marco, “Omicidi bianchi”, in Nazione indiana, http://www.nazioneindiana.com/2008/10/13/omi (...)
  • 12 Una memoria che si costruisce in opposizione a visioni egemoniche del passato e associata a gruppi (...)
  • 13 Erll, Astrid, “Literature, Film, and the Mediality of Cultural Memory”, p. 390.

4Nel caso delle caratteristiche intra-mediali delle narrazioni delle morti bianche, sembra prevalere una retorica antagonistica, dato che già il concetto allude polemicamente a una dimenticanza da parte della società. Rovelli in un intervento sul blog Nazione indiana propone invece di parlare di “omicidi bianchi” data l’intenzionalità negata11. Non si tratta però tanto di una memoria conflittuale o di una contro-memoria12, quanto di un’assenza omertosa di memoria di cui si rivendica la presenza. Per rendere la morte presente, il modo di narrare è spesso quello che Erll definisce “esperienziale”13, cioè una forma narrativa che presenta il passato come esperienza recentemente vissuta attraverso la storia personale in prima persona, attraverso la tecnica dello stream of consciousness o attraverso una rappresentazione dettagliata della vita quotidiana. Naturalmente il caso che qui trattiamo è per forza di cose storia recente. Le altre due retoriche trattate da Erll, quella di un modo mitico per rappresentare un passato lontano e fondatore e quella riflessiva di una meditazione critica sui processi stessi della rappresentazione, sono anch’esse presenti nelle opere da noi analizzate. Il modo mitico riguarda la dimensione storica della condizione dell’operaio, sentita nostalgicamente come una conquista perduta, e la riflessione sulla rappresentazione stessa serve a distanziarsi dalla sovraesposizione che il fenomeno ha avuto nei diversi media di massa.

  • 14 Mencherini, Stefano, Il pane loro, Lecce, Piero Manni, 2001; Faber Teater, La nuvola bianca, 2006, (...)

5La seconda condizione, quella inter-mediale dell’interazione tra la “premediazione” e la “rimediazione” di un evento, è anche rilevante per il nostro caso. La “rimediazione” indica la ripetizione di un evento da ricordare in diversi momenti e in diversi tipi di media, così che la rappresentazione assume una dimensione transmediale. La narrazione delle morti bianche viene trasmessa attraverso vari media performativi in cui concorrono strategie di tipo sia testuale sia visivo. Nel primo caso, si pensi alla pièce teatrale Il pane loro (2001) di Stefano Mencherini composta di storie vissute e di poesie (tra l’altro, di Roberto Roversi e Alda Merini), spettacolo sostenuto dall’Amnil (Associazione mutilati e invalidi del lavoro), o allo spettacolo La nuvola bianca (2006), allestito su iniziativa di Bianca Guidetti Serra, avvocato, partigiana, protagonista della vita sociale e politica della Torino del secondo dopoguerra, per ricordare le vittime dell’amianto a Casale, o al racconto di Andrea Bajani, Tanto si doveva del 2007, pubblicato come n. 3 “Morti bianche” del progetto “Diritti senza rovesci. Sicurezza e tutele: contro le discriminazioni, per una cultura etica del lavoro” su iniziativa dell’INAIL (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro) e ora inserito nella raccolta di racconti Lavoro da morire (2009), o si pensi ancora alle testimonianze raccolte da Samanta di Persio e pubblicate da Beppe Grillo in Morti bianche (2008), opera-denuncia sequel a Schiavi moderni (2007) sul precariato. Riguardo alle strategie di tipo visivo – oltre ai documentari già citati sono da ricordare il film Apnea, opera prima di Roberto Dordit, trasmesso dalla Rai l’11 dicembre 2007 per richiamare l’attenzione su quanto accaduto nelle acciaierie Thyssen Krupp di Torino, l’orazione “per i martiri dei petrolchimici” Un rumore di gabbiani di Giuseppe Cristaldi (2008), la mostra fotografica itinerante “No” dell’artista Riccardo Venturi, promossa sempre dall’Amnil, e il monumento di Gea Casolaro creato per la XV Quadriennale di Roma del 2008 in onore dei morti sul lavoro durante l’allestimento della mostra, intitolato “Ai caduti di oggi, un monumento quotidiano”, un’istallazione fatta di 4 schermi televisivi con la seguente spiegazione dell’artista: “Mi sembrava d’obbligo, per rendere omaggio a chi ogni giorno viene sacrificato alla produttività, costruire un monumento continuamente aggiornabile, come ogni giorno viene aggiornata questa triste lista”14.

6A proposito dell’opera artistica di Casolaro lo scrittore Beppe Sebaste ha ribadito sul sito Pagine corsare dedicato a Pasolini l’impegno etico dell’artista:

All’anestetizzazione della vita politica (cioè della cittadinanza), alla vetrinizzazione sociale che nelle città ci trasforma tutti in clienti e consumatori, forse solo gli artisti sembrano consapevoli dell’intreccio tra “tensione creativa e morale e politica”, spezzano a volte una continuità soffocante, e con le loro “opere pubbliche” ci turbano e ci emozionano e ci risvegliano risposte estetiche. Perché “l’opera d’arte è relazione”, come ha detto splendidamente un’artista, Gea Casolaro, che nel nodo tra estetica, città, ambiente e vita quotidiana svolge, come tanti altri, il suo lavoro e la sua educazione civica15.

  • 16 Cfr. Burns, Jennifer, Fragments of Impegno, Leeds, Northern UP, 2001, pp. 1-10 e Wren-Owens, Elisab (...)
  • 17 “L’importante è recuperare un’etica del narrare dopo anni di gioco forzoso”, Wu Ming, New Italian E (...)
  • 18 Orsatti, Pietro, De-Mä, Trasformazione o declino, Produzione SenzaMedia 2006, in http://vodpod.com/ (...)
  • 19 L’interazione nella memoria culturale tra passato e presente e tra individui e comunità viene gener (...)

7Le opere dedicate all’emergenza delle morti bianche si collocano così anche in una rinnovata cultura di impegno, non più guidata da metadiscorsi ideologici ma da “frammenti” di “microstoria”, che rimane ancora all’interno del postmoderno16 o che invece ne supera i limiti dell’autoriflessività17. Da quest’inventario non esaustivo risulta chiaro che oltre alla transmedialità la “rimediazione” sia il risultato anche di attività commemorative spesso promosse da parte di enti pubblici, fattori rilevanti anche per la terza condizione distinta da Erll, quella dei contesti plurimediali. Ma prima ancora una parola sulla “premediazione”, traducibile con il termine italiano di immaginario collettivo, le immagini preesistenti nella società che vengono riattualizzate per rappresentare eventi nel futuro. Possiamo esemplificarla con l’immagine classica dell’operaio, rievocata in un documentario del 2006 non ancora citato di Pietro Orsatti, sulla condizione dei portuali del terzo millennio nel porto di Genova (De-Mä, Trasformazione o declino)18. Dopo aver dimostrato, attraverso interviste con vari rappresentanti della popolazione portuale, che l’eroica lotta operaia genovese resistente al fascismo, per i lavoratori a cottimo si è ridotta a una “guerra di poveri” in cui si rischia la vita per un lavoro disumanizzante, il regista inserisce un testo in cui avverte la differenza tra la situazione lavorativa attuale e l’immaginario collettivo da cui era partito per filmare. Al blocco testuale Orsatti fa seguire nel montaggio le immagini di un coro di lavoratori anziani che cantano secondo la tradizione tipica della polifonia genovese, immagine che trasmette il senso di una perdita di tradizione e di identità collettiva. La tecnica della “premediazione” funziona quindi anche come segnale riflessivo di una memoria collettiva artificialmente costruita19.

  • 20 Calopresti, Mimmo, La fabbrica dei tedeschi, 2008, DVD e libro, Milano, Rizzoli, 2008.

8Senza la terza condizione dei contesti plurimediali, tutti i media e tutte le istituzioni coinvolte nella ricezione e nella discussione pubblica della memoria culturale, le narrazioni sulle “morti bianche” non potrebbero circolare. Essendo l’incidente della Thyssen Krupp nel 2007 un evento catalizzatore, coperto da tanta attenzione mediatica da poter dar visibilità ad un’intera problematica su scala nazionale rimasta finora invisibile, l’analisi della sua rappresentazione potrebbe servire per capire meglio quali mutazioni nel mondo del lavoro abbiano condotto all’urgenza di narrare proprio la storia delle morti bianche. Partiamo dunque dal film documentario La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti20 che possiamo considerare un’opera di memoria culturale per le retoriche di memoria collettiva adoperate, in cui sono riconoscibili gli aspetti intra/inter e plurimediali definiti da Astrid Erll.

  • 21 Nella postfazione al romanzo “post-industriale” Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Francesco Dezi (...)

9Le storie contemporanee di fabbrica, scaturite a volte dal dolore e dalla rabbia21, si collegano per la volontà di trovare nuovi modi per ristabilire una dimensione collettiva nell’esperienza operaia, anche quando questi vengono ritenuti illusori. Marco Rovelli, nell’intervento intitolato “Omicidi bianchi” sul blog di Nazione indiana, auspica la creazione di un nuovo soggetto operaio resistente,

la creazione di un nuovo legame solidale tra i lavoratori, che sconfigga quel diffuso senso di solitudine sociale ormai generalizzato. Sono i lavoratori a doversi difendere. Nessuno può farlo per loro.

10Le reazioni sul blog di chi vive la precarietà in prima persona sono però meno ottimiste sulla possibilità della creazione di una modernità “riflessiva” (Beck): scrive una “Precaria”:

  • 22 Rovelli, Marco, “Omicidi bianchi”, cit..

Noi siamo soli. Io sono sola. Io non ce l’ho la collega o il collega a fianco, il compagno, Marco. Siamo tutti soli a cercare lavoro. E siamo soli sul lavoro. […] I lavoratori non sono più uniti, perché non hanno più manco il tempo, di unirsi. La mia generazione, che è la tua, è disgregata, dispersa22.

  • 23 Calopresti, Mimmo, “Calopresti parla de ‘La fabbrica dei tedeschi’”, cit.
  • 24 Balla, Pietro, Repetto, Monica, “Note di regia a ThyssenKrupp Blues”, in WUZ cultura & spettacolo, (...)
  • 25 Revelli, Marco, Oltre il Novecento, cit., p. 154.

11Creare con il suo documentario la possibilità di “rimettersi insieme per andare avanti” sembra anche essere lo stimolo primario per Calopresti che in un’intervista rilasciata a una televisione indipendente dichiara di essere stato colpito soprattutto dal fatto che questi operai della Thyssen siano completamente soli, a differenza della classe operaia a cui apparteneva suo padre, lavoratore della Fiat nei tempi in cui lo sciopero destava la solidarietà dell’intero quartiere. Inoltre, in una videointervista per La Stampa, il regista si sofferma sull’impotenza e la disperazione sentite di fronte al dolore delle vittime. Oltre a fornire un modo per condividere la loro tragedia, Calopresti intende anche offrire gli elementi con i quali ogni persona può cominciare a difendersi personalmente dal meccanismo rischioso e mortale del lavoro in fabbrica23. I registi di Thyssen Krupp blues, Balla e Repetto, affermano in un’intervista pubblicata su WUZ di aver scelto di narrare la storia di un solo operaio, il calabrese Carlo Marrapodi, proprio per mettere in evidenza la solitudine dell’operaio di oggi: “‘Thyssenkrupp Blues’ racconta una storia di solitudine e di abbandono che ci riguarda”24. A loro giudizio raccontare la schiavitù è l’unico modo per mantenere una dimensione di libertà. Il legame tra i due documentari presentati a Venezia è proprio l’operaio Carlo, uno dei colleghi dei sette morti, intervistato da Calopresti in La fabbrica dei tedeschi. Potrebbe risiedere nell’atto di narrare la propulsione verso il riscatto dalla dimensione alienante del lavoro, verso l’atteggiamento per poter compiere il passaggio necessario dalla “società del lavoro” alla “società del dopo lavoro”25.

  • 26 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 204.
  • 27 In Nicola Rubino è entrato in fabbrica per esempio i capisquadra o “capetti” sono paragonati dal pr (...)
  • 28 Qui bisogna menzionare il libro di Portelli, Alessandro, Acciai speciali (Roma, Donzelli, 2008) che (...)

12I due fotogrammi che aprono La fabbrica dei tedeschi sono quello d’archivio del 1895 di una allegra massa operaia che esce da una fabbrica a Lione – immagine premediata e “riflessiva” intesa a evocare anche i prodromi del cinema avido di modernità e progresso – e quello della attuale fabbrica Thyssen Krupp di Torino del 2007, edificio chiuso e austero scevro di ogni dimensione umana. La distanza tra le due immagini genera la mitizzazione di un passato irrecuperabile. Il titolo del film in combinazione con le fotografie iniziali evoca inoltre sia l’icona della fabbrica paternalistica e protettiva del passato, sia l’anonimità della multinazionale del presente, elemento estraneo piantato nel terreno italiano, più specificamente a Torino, l’epicentro dell’industria italiana. Uno dei lavoratori più anziani intervistati richiama i fasti dell’acciaio torinese, prodotto da macchinari al tempo rivoluzionari che “quelli di Terni sono venuti a copiare” – lo stabilimento della Thyssen sta per essere trasferito a Terni. La proprietà tedesca rievoca un altro passato, quello dei fondatori filonazisti dell’azienda, un passato riesumato da Rovelli che corregge poi il tiro aggiungendo che “per la TK, oggi, nessun legame con quel passato orrendo. Ma conviene ricordarlo, come si fanno certe fortune”26. L’immaginario nazifascista ricorre spesso nelle narrazioni intese a denunciare le condizioni lavorative neoliberiste dettate solamente dall’aumento della produttività27. Nonostante il titolo possa sembrare quindi provocatorio, Calopresti nel film non allude però a una premediazione dell’immaginario totalitario, anzi i dirigenti tedeschi sono completamente assenti, un’assenza colpevole espressa attraverso le parole amare dei familiari rimasti senza i loro cari: i ragazzi sono stati lasciati “allo sbaraglio” e la loro morte è stata una “follia”. Alla distanza nel tempo il titolo aggiunge quindi anche distanza geografica e mentale del mercato globalizzato28.

  • 29 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 204.

13Ai due fotogrammi seguono immagini in bianco e nero di noti attori, tra cui Silvio Orlando e Valeria Golino, che mettono in scena brandelli delle storie personali che verranno poi narrate nel film dai protagonisti reali. Qui ad autentificare il reale non è dunque il materiale documentario ma proprio la finzione, preambolo che mette lo spettatore in una condizione di empatia. Sullo schermo figura anche il countdown delle ore che finisce con l’esplosione a colori dell’incendio, immagine spettacolare allo stesso tempo irreale ed epocale. Segue un montaggio a ritmo frenetico dei vari telegiornali che trasmettono la notizia in diretta con variazioni nel numero degli infortunati. Il documentario non ci si sofferma ma l’agonia delle vittime è durata quasi un mese29. Dopodiché la telecamera riprende la prima immagine diretta, quella del monumento di fotografie, fiori, poesie e giocattoli allestito davanti ai cancelli della fabbrica a cui il regista si avvicina porgendo il suo rispetto mentre in sottofondo riecheggia una musica elegiaca barocca che si distingue dalla colonna sonora del film. L’immagine si sposta sui cancelli chiusi della fabbrica: altro topos ricorrente nei vari documenti di testimonianza è la fabbrica in quanto luogo segregato dalla realtà circostante, un luogo tabù dove si celano cose che non tollerano la luce del giorno. Un particolare che emerge dalle testimonianze raccolte da Calopresti è il fatto inspiegabile che le finestre della linea 5, il luogo dell’incendio, fossero state oscurate. La moglie di uno dei ragazzi morti ricorda come lui le chiedeva al telefono che tempo facesse fuori, sequenza chiave ripresa nel trailer del film.

  • 30 “Tanti, forse trentamila, e soli, non più la città intera. C’erano gli operai di Torino a piangere (...)

14Dalla scena del delitto passiamo al luogo dell’antagonismo, la manifestazione con cui i lavoratori hanno dimostrato pubblicamente il loro dolore e la loro rabbia. Il teleobiettivo indugia sul titolo di un giornale che riporta le parole “Spoon river”. La retorica antagonistica è quindi di tenore elegiaco, una denuncia riferita a un passato tragico che viene in un certo senso canonizzato. Anche in questo momento di collettività gli operai rimangono soli30. La telecamera riprende di nuovo il monumento per i morti davanti alla fabbrica, una costante nel film che ne fa davvero un’opera di commemorazione. Questa volta si avvicinano i vari familiari a ritmo lento e parte la prima intervista con la madre di uno dei morti, che erano tutti giovani tranne un padre di famiglia vicino alla pensione. Altro tema che ricorre nelle narrazioni sulle morti bianche è infatti la cancellazione nella società postfordista della trasmissione del sapere del mestiere tra le varie generazioni.

  • 31 Ibid., p. 198.

15Uno dei punti forti del film è che tutte le interviste sono filmate diversamente per accompagnare i differenti modi di elaborare il lutto. L’approccio personalizzato proprio del metodo esperienziale a volte prende la forma della retorica dello stream of consciousness; ricordiamo la scena della giovane moglie di uno dei ragazzi deceduti che ripercorre in macchina il tragitto del marito dalla loro casa in campagna verso la fabbrica, in modo che il ricordo si mette in moto e diventa attivo. Mimmo Calopresti accanto alle vittime mette in scena anche se stesso e la sua troupe, scelta che non deve essere interpretata come un atto di narcisismo ma piuttosto come un commento riflessivo, come una presa di posizione nei confronti della spettacolarizzazione del dolore da parte dei media di massa. Possiamo dire con le parole di Marco Rovelli che Calopresti dimostra di avere “la consapevolezza dell’intento predatorio dello spettacolo, del suo meccanismo perverso, anestetizzante”31.

  • 32 Comencini, Francesca, In fabbrica, 2007 (DVD 2009). Il documentario ricostruisce con materiale d’ar (...)
  • 33 Intervista a Francesca Comencini, in Taviani, Giovanna e Vicari, Daniele (a cura di), “La realtà to (...)

16Tra le retoriche della memoria collettiva adottate nel documentario di Calopresti predomina dunque il modo esperienziale, una caratteristica in sintonia con l’attuale ritorno al documentario e al cinema-denuncia segnalato in un’inchiesta su iniziativa della rivista Allegoria. Nell’intervista alla regista Francesca Comencini, realizzatrice del documentario In fabbrica (2007)32, il confronto filmico con la realtà è interpretato in termini di immedesimazione e di impegno umano: “Vi è uno sguardo che contempla le persone come parte di un sistema […], ma che prende il tempo […] per riuscire a distinguerli come creature uniche e integre. Per me questo è il cinema documentario di denuncia più forte”33. Tale dichiarazione viene messa in pratica da Calopresti con il racconto in prima persona delle vittime riprendendo i dettagli della loro vita quotidiana, le foto delle vittime sui mobili, i giocattoli dei bambini abbandonati dalla presenza del padre. Il quadro che si ottiene delle vite di questi lavoratori non si ferma però nell’attimo presente ma si estende anche al passato collettivo della militanza operaia. Il regista fa uso di tecniche di premediazione quando nella casa del lavoratore morto più anziano, e quindi più vicino all’eredità della classe operaia di un tempo, la telecamera riprende la riproduzione del famoso quadro di Volpedo, Il quarto stato, che si presume appartenere alla vittima. Colpisce la quasi totale assenza di materiali d’archivio, la mancanza del passato viene dunque collocata nelle vite degli stessi operai situando lì anche la possibilità di un riscatto.

17La sequenza finale del film riunisce tutti gli amici e i familiari intorno al monumento allestito per i propri morti. Qui potrebbe rinascere una dimensione collettiva. I vari intervistati sottolineano che la loro identificazione con la fabbrica passava attraverso la dimensione umana delle amicizie, dei sogni condivisi di liberarsi dalla “schiavitù” per mettersi in proprio, aprire un bar, una fattoria, sogni concreti e modesti con una dimensione di comunità intima.

  • 34 Revelli, Marco, Oltre il Novecento, cit., p. 154.

18Come si è detto, proprio l’atto di narrare la storia delle morti bianche potrebbe comportare una possibilità di emancipazione. Ma come concepirla nella dimensione di una discontinuità radicale nella transizione tra fordismo e postfordismo, tra società industriale e società del rischio? Qui forse possiamo riprendere Marco Revelli che in Oltre il Novecento ipotizza una possibile via d’uscita “attraverso la quale iniziare qualche percorso di esodo”34. Citando André Gorz da Adieu au prolétariat Revelli dichiara che nella società del “dopo lavoro”

  • 35 Ibid., p. 153.

occorre che il lavoro perda la sua centralità nella coscienza, nel pensiero, nell’immaginazione di tutti: non pensarlo più come ciò che si ha o non si ha; ma come ciò che facciamo. Bisogna osar volere riappropriar[s]i del lavoro35.

  • 36 Ibid., p. 157.
  • 37 Ibid., p. 154.

19Torniamo all’operaio Carlo che fa da trait d’union tra i due documentari di Calopresti e di Balla e Repetti. Nel suo ruolo di testimone del disastro che porta avanti nella cosiddetta “carovana”, e che di lui ha fatto una figura pubblica, non possiamo vedere un modo di rifarsi una vita al di fuori di quello che Revelli chiama “i vincoli di un universo umano dominato dall’eterodirezione (e dall’eterogenesi dei fini)”36? E le coraggiose madri e mogli vedove del lavoro di cui parla Rovelli in Lavorare uccide, che hanno preso l’iniziativa di fondare associazioni per commemorare i loro cari e che si inseriscono quindi non più come vittime ma come agenti nella “carovana del lavoro”, non iniziano forse il percorso di esodo immaginato da Revelli che porterà alla “società della cultura” prospettata da Gorz, fatta di “attività autonome, e fini liberamente scelti37?

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Note

1 Fusco, Maria Pia, “Rabbia, dolore e polemiche morti bianche, shock in Laguna”, in La Repubblica, 5 settembre 2008, http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/09/05/rabbia-dolore-polemiche-morti-bianche-shock-in.html (consultato il 5 maggio 2009).

2 Corbari, Costantino, Angelo Corti (a cura di), Angeli senza ali. Morti bianche e sicurezza sul lavoro. Il caso Lombardia, Roma, Edizioni Lavoro, 2008, p. 7.

3 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, Milano, Rizzoli, 2008, p. 24.

4 Revelli, Marco, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Torino, Einaudi, 2006, pp. 144-145.

5 Beck, Ulrich, Risk Society: Towards a New Modernity, London, Sage, 1994, p. 3.

6 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 13.

7 Erll, Astrid, “Cultural Memory Studies: An Introduction”, in Erll, Astrid, Ansgar Nünning (a cura di), Cultural Memory Studies: an International and Interdisciplinary Handbook, Berlin, Walter de Gruyter, 2008, p. 2.

8 Beck, Ulrich, Risk Society, cit., p. 2.

9 Erll, Astrid, “Literature, Film, and the Mediality of Cultural Memory”, in Cultural Memory Studies, cit., p. 390.

10 Ibid.

11 Rovelli, Marco, “Omicidi bianchi”, in Nazione indiana, http://www.nazioneindiana.com/2008/10/13/omicidi-bianchi/ (consultato il 5 maggio 2009).

12 Una memoria che si costruisce in opposizione a visioni egemoniche del passato e associata a gruppi che sono stati lasciati “fuori” dalla storia ufficiale. Si veda Rigney, Ann, “Plenitude, scarcity and the circulation of cultural memory”, Journal of European Studies, n. 35, 2005, p. 13.

13 Erll, Astrid, “Literature, Film, and the Mediality of Cultural Memory”, p. 390.

14 Mencherini, Stefano, Il pane loro, Lecce, Piero Manni, 2001; Faber Teater, La nuvola bianca, 2006, http://www.faberteater.com/amianto_articolo.htm (consultato il 5 maggio 2009); Bajani, Andrea, “Tanto si doveva”, in A.a.V.v., Lavoro da morire, Torino, Einaudi, 2009, pp. 19-25; Di Persio, Samanta, Morti bianche, I libri di beppegrillo.it, 2008; Dordit, Roberto, Apnea, 2005; Cristaldi, Giuseppe, Un rumore di gabbiani. Orazione per i martiri dei petrolchimici (libro + DVD), Lecce, BESA Editrice, 2008. Per la mostra fotografica “No” di Venturi rimando al sito http://www.superabile.it/web/it/CANALI_TEMATICI/Lavoro/News/info-1855701121.html (consultato il 5 maggio 2009). Ringrazio Inge Lanslots per la segnalazione dell’opera di Gea Casolaro. Sono da menzionare anche i “sacrari virtuali” allestiti per commemorare le morti bianche (http://www.mortibianche.it/) e i ‘caduti sul lavoro’ (http://www.cadutisullavoro.it/).

15 Sebaste, Beppe, “Politica significa immaginare”, Pagine corsare, giugno 2007, in http://www.pasolini.net/saggistica_politica-significa-immaginare.htm (consultato il 5 maggio 2009).

16 Cfr. Burns, Jennifer, Fragments of Impegno, Leeds, Northern UP, 2001, pp. 1-10 e Wren-Owens, Elisabeth, Postmodern Ethics, Newcastle, Cambridge Scholars Publishing, 2007, pp. 74-78.

17 “L’importante è recuperare un’etica del narrare dopo anni di gioco forzoso”, Wu Ming, New Italian Epic, Torino, Einaudi, 2009, p. 24.

18 Orsatti, Pietro, De-Mä, Trasformazione o declino, Produzione SenzaMedia 2006, in http://vodpod.com/watch/50488-de-m%C3%A4-trasformazione-o-declino?mp=1&pod=orsatti (consultato il 5 maggio 2009).

19 L’interazione nella memoria culturale tra passato e presente e tra individui e comunità viene generalmente concepita con la dinamicità di un modello sociocostruzionista (“social-constructivist model”, Rigney, Ann, “Plenitude”, cit., p. 14).

20 Calopresti, Mimmo, La fabbrica dei tedeschi, 2008, DVD e libro, Milano, Rizzoli, 2008.

21 Nella postfazione al romanzo “post-industriale” Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Francesco Dezio lo dice chiaramente: “È inutile girarci intorno, a scriverlo mi ha spinto una grande incazzatura, un’incazzatura enorme e incontenibile. La rabbia collabora con me. Direi che è questa la cifra stilistica, se ce n’è una” (Dezio, Francesco, Nicola Rubino è entrato in fabbrica, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 180). Anche Calopresti in una videointervista con La Stampa parla di “incazzatura” e di “rabbia” (Calopresti, Mimmo, “Calopresti parla de ‘La fabbrica dei tedeschi’”, 5 settembre 2008, La Stampa.it Multimedia, http://lastampa.it/multimedia/multimedia.asp?IDalbum=12011&IDmsezione=12&p=5&tipo= consultato il 5 maggio 2009).

22 Rovelli, Marco, “Omicidi bianchi”, cit..

23 Calopresti, Mimmo, “Calopresti parla de ‘La fabbrica dei tedeschi’”, cit.

24 Balla, Pietro, Repetto, Monica, “Note di regia a ThyssenKrupp Blues”, in WUZ cultura & spettacolo, 4 settembre 2008, http://www.wuz.it/articolo/2458/venezia-thyssenkrupp-blues-balla-repetto.html (consultato il 5 maggio 2009).

25 Revelli, Marco, Oltre il Novecento, cit., p. 154.

26 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 204.

27 In Nicola Rubino è entrato in fabbrica per esempio i capisquadra o “capetti” sono paragonati dal protagonista ai balilla (Dezio, Francesco, Nicola Rubino è entrato in fabbrica, cit., p. 42).

28 Qui bisogna menzionare il libro di Portelli, Alessandro, Acciai speciali (Roma, Donzelli, 2008) che analizza attraverso le testimonianze orali degli operai la trasformazione della Thyssen in un’impresa globalizzata in cui chi decide non ha più contatti con la realtà locale.

29 Rovelli, Marco, Lavorare uccide, cit., p. 204.

30 “Tanti, forse trentamila, e soli, non più la città intera. C’erano gli operai di Torino a piangere i propri morti” (ibid., p. 207).

31 Ibid., p. 198.

32 Comencini, Francesca, In fabbrica, 2007 (DVD 2009). Il documentario ricostruisce con materiale d’archivio la storia operaia italiana dagli anni Cinquanta ad oggi facendo riferimento alla tragedia della Thyssen Krupp vedendo però anche i vantaggi della fabbrica postfordista, seguendo così la visione non distopica sulla modernizzazione di sociologi quali Beck.

33 Intervista a Francesca Comencini, in Taviani, Giovanna e Vicari, Daniele (a cura di), “La realtà torna al cinema. Sette interviste a registi e sceneggiatori italiani”, Allegoria, n. 57, 2008, p. 59.

34 Revelli, Marco, Oltre il Novecento, cit., p. 154.

35 Ibid., p. 153.

36 Ibid., p. 157.

37 Ibid., p. 154.

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Per citare questo articolo

Notizia bibliografica

Monica Jansen, «Quando l’azienda diventa mortale. Le “morti bianche”: narrazione e mutazione del soggetto operaio»Narrativa, 31/32 | 2010, 125-136.

Notizia bibliografica digitale

Monica Jansen, «Quando l’azienda diventa mortale. Le “morti bianche”: narrazione e mutazione del soggetto operaio»Narrativa [Online], 31/32 | 2010, online dal 01 juin 2022, consultato il 22 mai 2025. URL: http://journals.openedition.org/narrativa/1570; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1570

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