Flessibilità e precarietà del lavoro nell’Italia del XXI secolo
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1Conformemente alle tendenze constatate in altri Paesi europei, da una ventina d’anni l’Italia è confrontata a un processo di destrutturazione del mondo del lavoro così come esso era stato modellato nel corso del XX secolo. Dall’inizio degli anni ’90, si assiste infatti alla diffusione di nuove forme di contratti di lavoro – i cosiddetti contratti atipici – la cui funzione dovrebbe essere quella di adattare i rapporti professionali alle nuove esigenze di organizzazione del lavoro emerse con l’avvento dell’era postfordista. I contratti atipici sarebbero così il complemento indispensabile dei criteri di flessibilità richiesti sempre di più dalle imprese, la cui competitività si è trovata minacciata dall’inasprimento della concorrenza conseguente al processo di globalizzazione.
2 Ma a che cosa ci si riferisce esattamente quando si parla di flessibilità? A che velocità si sono diffusi i contratti atipici in Italia nel corso degli ultimi anni? Che cosa dicono le statistiche? Si tratta di un fenomeno in espansione? In che misura i contratti atipici rispondono effettivamente alla loro funzione di rendere più flessibile l’organizzazione del lavoro in seno all’impresa? E in che misura vengono invece usati dai datori di lavoro per aggirare i vincoli imposti dalle norme del diritto del lavoro? Peraltro, data la tendenza con cui la nozione di flessibilità e l’espansione dei contratti atipici vengono associate al concetto di precarietà, che cosa si intende esattamente per precarietà professionale e in quale misura si possono effettivamente associare questi tre elementi?
3Obiettivo del presente studio è di rispondere a tali quesiti, iscrivendo però l’analisi della situazione attuale del mercato del lavoro italiano in una prospettiva più ampia; una prospettiva che tenga conto dell’evoluzione del capitalismo durante gli ultimi quarant’anni – caratterizzati, in particolare, dall’ascesa delle politiche neoliberiste – e permetta quindi di inquadrare il caso italiano in un esame generale dell’evoluzione dei rapporti di forza fra capitale e lavoro.
Flessibilità e contratti atipici
4La nozione di flessibilità rientra nell’ambito dell’organizzazione del lavoro interna all’impresa e in quello riguardante i rapporti fra impresa e lavoratore sul mercato del lavoro. In tal senso, si può parlare di flessibilità interna e di flessibilità esterna. La prima allude ai margini di libertà di cui gode il datore di lavoro per adattare e variare gli orari di lavoro così come la mobilità del personale in seno all’organizzazione. La seconda riguarda invece la possibilità di modulare la numerosità del personale a seconda delle fluttuazioni della domanda cui è confrontata l’impresa; si tratta cioè della facoltà di espellere il personale divenuto sovrabbondante in seguito a un calo dei volumi di produzione e di rinviarlo sul mercato del lavoro (licenziamenti, soppressione di posti non mantenuti in organico, prepensionamenti, ecc.).
5 Ritorneremo più avanti sugli aspetti fortemente ideologici della nozione di flessibilità e sul suo intimo rapporto con le politiche neoliberiste. Per il momento, ci si accontenti di sottolineare il principio – ostentato e rivendicato dai difensori del neoliberismo – secondo cui la flessibilità dovrebbe permettere all’impresa di essere più competitiva, di prosperare e di contribuire così a creare occupazione. La flessibilità sarebbe una tappa verso la prosperità, un cammino da percorrere necessariamente per giungere a una situazione economica capace di garantire una certa stabilità dell’impiego. Globalizzazione oblige (ma che cos’è invero la globalizzazione, se non il risultato di un progetto politico voluto e volontario?), la flessibilità ci viene presentata insomma come un male minore, comunque temporaneo e soprattutto inevitabile.
- 1 Ritorneremo in seguito sul processo di individualizzazione e di “contrattualizzazione” dei rapporti (...)
6 Da ciò risulta la proliferazione, dall’inizio degli anni ’80, ma in particolar modo nel corso degli ultimi due decenni, dei contratti atipici1: atipici in quanto definiscono un rapporto di lavoro che si allontana dalle norme standard di impiego costituite dal contratto a durata indeterminata e a tempo pieno (CDI). Tali contratti cambiano di denominazione da un Paese all’altro (e ciò in funzione anche della costante evoluzione delle loro norme giuridiche in materia di diritto del lavoro), ma in generale includono alcuni istituti ricorrenti, quali i contratti di lavoro dipendente a durata determinata, di lavoro a tempo parziale, di lavoro interinale, di lavoro fornito da collaboratori esterni (dunque formalmente autonomi) ma coordinati dall’impresa, di inserzione professionale, di apprendistato, ecc.
- 2 Numerose informazioni sono disponibili anche sui siti internet dell’Istat (cfr. soprattutto gli stu (...)
7 Non è nostro obiettivo analizzare nei dettagli le diverse e numerose forme di lavoro atipico esistenti oggi in Italia. Per averne una visione esaustiva e costantemente aggiornata, rinviamo il lettore alla vasta letteratura specializzata in materia2. Qui ci interesserà piuttosto render conto dell’ampiezza del fenomeno sul piano quantitativo e statistico, vedere se esso si associ a una precarizzazione della vita professionale e capire come si iscriva nel quadro più generale – e non specificamente italiano – dell’evoluzione del capitalismo nella sua versione neoliberista.
- 3 Cfr. Istat, Forze di lavoro. Media 2007, Annuario n. 13, 2008, pp. 75-76, in http://www.istat.it/da (...)
8 I dati riguardanti i contratti atipici in Italia variano secondo gli studi e i criteri di definizione adottati. La Tavola 1, ottenuta utilizzando congiuntamente le statistiche dell’Istat, del Ministero del Lavoro (che ha rielaborato a sua volta i dati Istat) e del Cnel3, mostra la distribuzione dell’occupazione, nel 2007, fra lavoro dipendente e lavoro indipendente.
9 I dipendenti a termine (che, secondo la rilevazione sulle forze di lavoro effettuata dall’Istat, includono i contratti a tempo determinato, il lavoro stagionale, i contratti di apprendistato o di formazione lavoro e il lavoro interinale) erano dunque quasi 2.300.000, ossia il 13,2% del lavoro dipendente e il 9,8% dell’occupazione totale.
- 4 Le forme di lavoro atipico possono essere raggruppate in quattro macro-categorie: A) forme di lavor (...)
- 5 Disciplinate dallo statuto del lavoro a progetto a partire dal 2003, le Co.Co.Co. sono sparite dal (...)
10 Il lavoro dipendente a tempo determinato, tuttavia, non esaurisce l’universo dell’occupazione a termine. Le “esigenze” della flessibilità hanno spinto lo sviluppo di altri contratti atipici che definiscono nuovi rapporti fra impresa e lavoratore, come le collaborazioni coordinate continuative (Co.Co.Co.) e i prestatori d’opera occasionali4. In questi casi, si tratta di lavoratori autonomi che collaborano con l’impresa puntualmente e per periodi di tempo limitati. Tali contratti hanno spesso nascosto degli abusi da parte dei datori di lavoro, i quali ne hanno tratto profitto per alleggerirsi degli oneri che comporta un CDI pur continuando a usufruire delle prestazioni lavorative offerte dai loro ex-dipendenti (divenuti formalmente, ma non effettivamente, dei lavoratori autonomi). Per frenare tali abusi, peraltro, il legislatore è intervenuto con il decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (recante attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30, cosiddetta legge Biagi), il quale fissa limiti precisi all’uso delle collaborazioni coordinate continuative5.
11 Nella Tavola 1, Co.Co.Co. e prestatori d’opera occasionale non appaiono in quanto vengono inclusi fra gli “indipendenti”. Isolando queste due categorie e aggiungendole a quella dei dipendenti a termine, come indicato in Tavola 2, si può riconfigurare la distribuzione dell’occupazione in Italia e ottenere un insieme rappresentativo dell’universo dei lavoratori a termine (dipendenti e indipendenti), esclusi per definizione dai benefici che procura un CDI.
12Così ricomposto, il lavoro a termine rappresenta, nel suo insieme, l’11,9% dell’occupazione totale, il lavoro dipendente a tempo indeterminato (CDI) il 64,2% e il lavoro indipendente (esclusi i Co.Co.Co. e i prestatori d’opera occasionale) il 23,9%. Si osservi tuttavia che, sebbene il grosso dell’occupazione appaia ancora costituito da CDI e lavoro autonomo, che il Ministero del Lavoro considera impieghi stabili, l’espansione dell’occupazione a termine è stata notevole nel corso degli ultimi due decenni.
- 6 La stessa ricerca rivela inoltre che il fenomeno è stato particolarmente intenso nel settore dell’i (...)
13Si consideri in particolare l’evoluzione del lavoro dipendente a termine (Tavola 3). Fra il 1993 e il 2007, esso è cresciuto a un ritmo superiore rispetto a quello con cui è aumentato in generale il numero totale dei dipendenti. Passando da 1.461.000 a 2.269.000, la quantità di dipendenti a termine è aumentata infatti del 55,3% (in media, più del 3% all’anno), mentre il numero totale di dipendenti è aumentato del 16,3% durante lo stesso quindicennio (in media, all’incirca l’1% all’anno). Ciò indica che, sebbene la quantità di dipendenti con un CDI sia ancora ampiamente prevalente (14.898.000 lavoratori, ossia l’86,8% del numero totale di dipendenti), lo sviluppo dell’occupazione dipendente a termine è stato molto forte nel corso degli ultimi quindici anni6.
- 7 Cfr. Cnel, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., p. 122. In effetti, l’aumento di 360.000 lav (...)
14 Allo stesso tipo di conclusioni si perviene considerando il lavoro a termine nel suo complesso. Nel periodo 2004-2007, esso è cresciuto infatti del 14,7%, mentre l’occupazione è aumentata solo del 3,6%. Come osserva il Cnel, la sua incidenza – segnatamente quella del lavoro dipendente a termine che, aumentando del 18,8% nel quadriennio 2004-2007, ha contribuito per oltre un terzo all’incremento dell’occupazione dipendente totale nello stesso periodo7 – è dunque tutt’altro che irrilevante (Tavola 4).
15Questi dati possono essere incrociati con quelli riguardanti il lavoro part-time. Si noti che quest’ultimo non coincide necessariamente con un impiego a durata determinata, in quanto anche un CDI può prevedere prestazioni a tempo parziale. Tuttavia, se si prende l’impiego a tempo pieno (oltre che a durata indeterminata) come standard di riferimento, si può allora considerare il part-time una forma di lavoro atipico.
16Nella Tavola 5 si può osservare come il part-time tenda spesso ad associarsi al lavoro a tempo determinato, soprattutto nell’occupazione non dipendente. La percentuale di lavoratori a tempo parziale, che è del 22,1% nella categoria dei dipendenti a termine, sale infatti al 40,3% nella categoria dei Co.Co.Co. e addirittura al 64,3% in quella dei prestatori d’opera occasionale. Sembra esserci dunque una correlazione fra le due forme di lavoro atipico, a tempo determinato e a tempo parziale: più ci si allontana dalla categoria standard dei CDI, meno si ha la possibilità di lavorare a tempo pieno (salvo i casi, ovviamente, in cui il part-time viene scelto esplicitamente dal lavoratore per potersi dedicare ad altre attività personali). Il fenomeno sembra inoltre essersi amplificato nel tempo, come mostra l’evoluzione dei dati dal 2004 al 2007.
17Le stesse fonti di informazione permettono anche di paragonare l’ampiezza della diffusione del lavoro a termine fra le donne e fra gli uomini (Tavola 6). Si constata allora che l’incidenza del lavoro a termine (dipendenti a tempo determinato, Co.Co.Co., prestatori d’opera occasionale) è praticamente due volte più forte fra le donne che fra gli uomini, il che parrebbe confermare la persistenza di una maggiore fragilità contrattuale delle prime rispetto ai secondi.
- 8 Considerando il solo universo dei lavoratori a termine (dipendenti a tempo determinato, Co.Co.Co., (...)
18 Anche l’età è un fattore di discriminazione, in quanto il lavoro dipendente a termine risulta maggiormente diffuso fra i più giovani. Rielaborando i dati dell’Istat, si può osservare che, nell’ambito dell’occupazione dipendente, l’incidenza del lavoro a tempo determinato aumenta man mano che si passa dalle categorie dei lavoratori più anziani a quelle dei lavoratori più giovani. Fra i minori di 25 anni, cioè i più giovani, l’incidenza è infatti del 36%. In altri termini, nell’universo degli occupati con meno di 25 anni, più di uno su tre è un dipendente a termine. Viceversa, la percentuale di lavoratori con CDI tende a crescere man mano che si passa dai lavoratori più giovani a quelli più anziani (Tavola 7)8.
- 9 Istat, Università e lavoro: orientarsi con la statistica, 2008, pp. 40-41, in http://www.istat.it/l (...)
- 10 In generale, lo studio dell’Istat sottolinea che circa tre laureati su quattro, fra quelli che hann (...)
19 La consistenza del lavoro atipico fra i giovani può essere analizzata, in particolare, studiandone l’incidenza fra i neolaureati. Secondo una ricerca effettuata dall’Istat nel 20089, i cui risultati sono sinteticamente riassunti nella Tavola 8, una percentuale variabile fra il 40% e il 48% dei laureati che hanno trovato impiego nei tre anni successivi alla laurea, lavora con contratti atipici (in generale a termine). Si tratta di cifre assai elevate, le quali mostrano la diffusione dell’“atipicità” fra i giovani che entrano nel mercato del lavoro. Il fenomeno è d’altronde più accentuato fra i possessori di una laurea triennale che fra coloro che hanno un livello di studi più elevato. Anche sotto l’aspetto del titolo di studi, quindi, i contratti atipici paiono una “opzione” più facile da imporre a chi, trovandosi alla ricerca di un impiego, ha un minor potere di negoziazione sul mercato del lavoro10.
“Vera” o “falsa” flessibilità?
- 11 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2007, Roma, 2008, p. 178, in http://www.istat. (...)
- 12 Il tasso di disoccupazione è il rapporto “persone in cerca di lavoro / forza lavoro”, cioè la perce (...)
- 13 Cfr. Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., p. (...)
20 Nel suo rapporto annuale sulla situazione dell’Italia nel 200711, l’Istat afferma che il calo della disoccupazione, in atto dalla fine degli anni ’90, è un segnale importante della trasformazione del mercato del lavoro nazionale. Tale tendenza si è intensificata durante gli ultimi anni, come mostra la diminuzione del tasso di disoccupazione dall’8,7% di inizio 2004 al 6,6% dell’ultimo trimestre 2007 (con un tasso medio annuo del 6,1% per il 2007)12. Parallelamente, il tasso d’occupazione è aumentato nello stesso periodo dal 57,5% al 58,7%13. Questi progressi andrebbero attribuiti segnatamente al lavoro a termine, la cui espansione nel quadriennio 2004-2007, come visto precedentemente nella Tavola 4, è equivalsa in effetti al 43,1% di quella del numero totale di occupati durante lo stesso periodo.
- 14 Cfr. Mandrone, Emiliano, Massarelli, Nicola, Quanti sono i lavoratori precari ?, in http://www.lavo (...)
21Emiliano Mandrone, autore di vari studi sulle dinamiche dei contratti atipici in Italia14, osserva però che tali risultati dovrebbero suscitare un entusiasmo moderato in quanto all’espansione del lavoro a termine, in tutte le sue forme atipiche, si è accompagnata una graduale diffusione della precarietà professionale.
- 15 Come si è segnalato nella nota 5, il legislatore italiano è intervenuto nel 2003 per limitare gli a (...)
22 Prima di dare una definizione della nozione di precarietà e di addentrarsi nello studio del fenomeno, è opportuno ricordare che i contratti atipici, i quali in linea di principio dovrebbero soddisfare le esigenze di flessibilità aziendale, di fatto sono stati spesso utilizzati dai datori di lavoro per aggirare i loro obblighi nei confronti dei dipendenti. L’esternalizzazione di prestazioni di lavoro subordinato – che, appunto, può avvenire trasformando lo statuto del dipendente in quello di lavoratore autonomo – permette infatti all’impresa di liberarsi delle “pesantezze” amministrative e delle rigidità salariali e occupazionali imposte da un rapporto di lavoro dipendente “tipico”. Pur continuando a fornire all’impresa le proprie prestazioni, il lavoratore cessa di essere un dipendente per diventare un “imprenditore di se stesso”, alleggerendo notevolmente la struttura produttiva e i costi gestionali dell’azienda. Quest’ultima potrà così ricorrere alle prestazioni del lavoratore finché ne avrà bisogno, ma senza i vincoli che le verrebbero imposti da un’assunzione tradizionale e tipica in caso di interruzione del rapporto di lavoro (procedure di licenziamento, sussidi di disoccupazione, ecc.). Sarebbe quindi interessante sapere quando un contratto atipico è stipulato per far fronte a un reale bisogno di flessibilità, come nel caso di un’attività di natura fortemente stagionale, e quando invece vi si ricorre per evitare di assumere un lavoratore in piena regola, cioè con un CDI15.
- 16 L’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) è un centro di ric (...)
- 17 La colonna che nella Tavola 9 abbiamo denominato “Contratti a tempo determinato” viene definita dal (...)
23 A tale proposito, può risultare utile una ricerca condotta dal già citato Emiliano Mandrone sulla base dei dati ottenuti da un’inchiesta dell’Isfol16. Secondo l’autore, un’alta percentuale degli intervistati spiega il proprio statuto di lavoratore a termine con ragioni indipendenti da vere esigenze di riorganizzazione interna del lavoro. In altri termini, la percezione dei lavoratori indicherebbe che la natura temporanea del loro impiego non è giustificata dalle mansioni attribuite al posto di lavoro occupato o dai bisogni specifici inerenti alla gestione dell’attività aziendale (Tavola 9)17.
24 Spesso, il ricorso a un contratto atipico da parte del datore di lavoro non sarebbe dovuto dunque a reali esigenze di flessibilità, legate alle fluttuazioni del ciclo economico o alla specificità del processo produttivo, ma alla preoccupazione di ridurre i costi del lavoro e di sfuggire alle “rigidità” che comporta un CDI. La Tavola 9 mostra infatti che, ad eccezione del caso del lavoro intermittente o a chiamata, sono molto frequenti le risposte dei lavoratori che ritengono di lavorare con contratti atipici per ragioni che, di fatto, non sembrano riconducibili al bisogno di rendere più flessibile l’organizzazione aziendale (periodo di prova o di specializzazione, nessun motivo in particolare).
- 18 Cfr. Mandrone, Emiliano, La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’inda (...)
25 Anche le interviste fatte ai lavoratori interinali lasciano il dubbio di possibili abusi nel ricorso a tale tipologia di impiego temporaneo da parte dei datori di lavoro18. Innanzitutto, il lavoro interinale non risulta essere una scelta spontanea, ma di puro ripiego, per il 76% degli intervistati, che dichiarano di averlo accettato nell’impossibilità di trovare un CDI (soltanto il 18% lo considera un “ponte” per approdare a un impiego stabile). In secondo luogo, nella grande maggioranza dei casi (61%) i lavoratori interinali affermano che, all’inizio della loro missione, non era stata prospettata loro alcuna possibilità futura di assunzione definitiva da parte dell’impresa utilizzatrice. Non stupisce dunque che solo un quarto di essi ritenga probabile la conversione del loro attuale statuto in un CDI (molto probabile: 7,4%; abbastanza probabile: 18,5%), mentre più del 70% considera tale evoluzione poco probabile (51,4%) o impossibile (22,7%). Tale impressione è confermata d’altronde dal fatto che, per circa il 60% dei lavoratori interinali intervistati, la missione che stanno compiendo è la proroga di una precedente. È questo il sintomo di un ricorso sistematico e non solo occasionale – come vorrebbe invece lo statuto interinale – a tale forma di contratto atipico, il che pare confermare la tendenza delle imprese ad abusarne e a utilizzarlo in situazioni che non si spiegano per il carattere specifico delle attività produttive.
26 Più in generale, l’inchiesta rivela che, malgrado l’autonomia formale, il lavoratore atipico coopera spesso con l’impresa cliente in condizioni professionali che in realtà sono quelle del lavoro subordinato (Tavola 10).
- 19 Per mantenere omogenea la terminologia utilizzata, nella Tavola 10 abbiamo denominato “Prestatori d (...)
- 20 Si noti tuttavia che “il dlgs 276/03 stabilisce [...] che il lavoratore a progetto gode di autonomi (...)
- 21 Peraltro, nella grande maggioranza dei casi gli intervistati rispondono affermativamente alla doman (...)
27Come mostra la Tavola 1019, in buona parte dei casi il rapporto di lavoro ha luogo in condizioni che richiederebbero l’assunzione con un contratto di impiego stabile. Dati i vincoli di subordinazione cui è sottoposto il lavoratore (opera per una sola società committente, svolge le sue attività nei locali di questa, rispetta un orario giornaliero concordato con essa20, usa mezzi e strumenti che questa gli fornisce, ha già rinnovato almeno una volta il contratto di collaborazione), le sue condizioni lavorative di fatto corrispondono più a quelle del dipendente subordinato che a quelle del lavoratore autonomo. Correlativamente, in dette circostanze l’impresa assomiglia più a un datore di lavoro che a un committente operante in qualità di cliente. Si direbbe insomma che in tali casi il formale e apparente rapporto cliente-fornitore trasforma, snatura o aggira un effettivo e occulto rapporto di subordinazione21.
La diffusione della precarietà: come misurarla?
28Di fronte alle cifre sopra esposte si ha la sensazione di una crescente precarizzazione del lavoro in Italia. Non poter contare su un impiego stabile; dover gestire da soli i rapporti con un datore di lavoro che assomiglia sempre più a un cliente-committente; fornire una prestazione lavorativa come si vende una mercanzia qualunque: tutto ciò non può certo rassicurare un individuo, sia questi un giovane che si appresta a entrare nel mercato del lavoro o un dipendente con anni di lavoro alle spalle obbligato a adattarsi alle nuove regole del gioco.
29La precarietà è insita nel “rischio imprenditoriale” al quale si sente fatalmente esposto il lavoratore atipico: imprenditore di se stesso, è costretto à “gestire” la fornitura delle sue prestazioni professionali come si gestisce un’attività di produzione e di vendita, dovendo sopportare tutti i rischi economici che implica tale approccio. Ne segue allora la difficoltà, se non l’impossibilità, di pianificare serenamente la propria vita privata oltre che professionale: programmare le proprie spese, comprare o semplicemente garantirsi un alloggio, fondare una famiglia e avere dei figli, ecc.
30La nozione di precarietà è complessa e non facile da definire. Deriva dalle condizioni di lavoro di un individuo (ma anche da quelle dei membri della famiglia che lo circonda) e può dunque coniugare situazioni oggettive, legate al deterioramento del rapporto lavorativo, con sensazioni e apprezzamenti soggettivi. Premesso che la precarietà è generalmente associata alla rottura del rapporto di lavoro (o alla possibilità che essa avvenga) in un dato periodo di tempo, se ne può proporre la definizione seguente:
- 22 Renault, Emmanuel, “‘Soyez modernes: devenez flexibles!’: luttes idéologiques autour de la précarit (...)
Il termine precarietà si riferisce all’assenza di sicurezza, che può essere valutata a sua volta sotto diversi aspetti: insicurezza in quanto al contratto di lavoro (che durata? che condizioni di rottura?), insicurezza in quanto ai diritti sociali connessi al lavoro (previdenza sociale, pensione), insicurezza in quanto ai redditi futuri22.
31 Benché si capisca intuitivamente come i contratti atipici possano generare insicurezza sui tre piani appena citati, la precarietà rimane un fenomeno difficile da misurare. Per farlo, con un margine di approssimazione accettabile, può allora essere utile svolgere un’analisi “longitudinale”, la quale consiste in un duplice studio: da un lato, si cerca di capire con che frequenza un lavoratore atipico riesce ad abbandonare tale statuto per diventare impiegato stabile; dall’altro, si osserva la persistenza dello statuto atipico (nessuna transizione da tale statuto a quello di impiegato stabile nel periodo in esame).
- 23 Per la precisione, il 14,8% ha ottenuto un CDI e l’1,6% è entrato nella categoria degli autonomi.
- 24 Per ragioni di spazio e per facilitare la lettura della matrice, non abbiamo indicato le transizion (...)
- 25 Questa cifra raggruppa gli individui in cerca di un’occupazione e quelli usciti dalla forza lavoro. (...)
32 La matrice qui esposta mostra livelli di persistenza assai elevati: soltanto il 16,4% di coloro che nel 2006 avevano un lavoro a termine (dipendenti a tempo determinato, Co.Co.Co. o prestatori d’opera occasionale) è potuto accedere a un impiego stabile nel 200723, mentre il 70,5% è rimasto nella stessa categoria di impiego24. Se ad essi si aggiunge il 13,1% composto da coloro che sono caduti nella classe dei non occupati, la percentuale dei lavoratori che avevano un contratto atipico nel 2006 e che non sono riusciti ad accedere a un impiego stabile l’anno seguente è dell’83,6%. Così pure si noti che nell’89,1% dei casi, i non occupati del 2006 sono rimasti tali nel 200725.
- 26 In certi settori e per certe attività, il ricorso ai contratti atipici è ritenuto una pratica abitu (...)
33Sebbene vadano interpretati con prudenza, questi dati sembrano indicare che molti lavoratori atipici si ritrovano invischiati in una sorta di “trappola della precarietà”, data la difficoltà di ottenere un impiego stabile nel giro di un anno26.
- 27 Cfr. Mandrone, Emiliano, Quando la flessibilità diviene precarietà: una stima sezionale e longitudi (...)
34 In linea di principio, non vi è precarietà propriamente detta laddove un contratto atipico si trasformi rapidamente in impiego stabile. In tal caso, il contratto svolge la sua funzione di mezzo di inserimento e di “porta di entrata” per permettere al lavoratore di accedere a condizioni di impiego standard (CDI), cioè a una situazione professionale “normale”27. Il lavoratore si impantana invece nella precarietà quando il contratto atipico non si evolve al di là di un periodo considerato normale rispetto alla natura e alla funzione del contratto stesso, o quando questo viene rinnovato più volte pur essendo inadatto alle prestazioni lavorative richieste. Il lavoratore può allora essere considerato precario in quanto permane in condizioni anormali di incertezza e di insicurezza.
35 Per apprezzare meglio il grado di vischiosità dei contratti atipici, ossia la difficoltà di liberarsi da un lavoro precario per pervenire a un’occupazione stabile, è opportuno analizzare i flussi di transizione dall’atipicità verso un CDI, o eventualmente verso il lavoro autonomo, su un periodo di almeno 36 mesi. La Tavola 12 si concentra in particolare sulla popolazione dei dipendenti a termine, indicandone l’evoluzione dopo tre anni.
- 28 I maggiori flussi di transizione di dipendenti con CFL verso un impiego stabile sono probabilmente (...)
36Come si può osservare, l’atipicità tende a persistere nel tempo per un’ampia fascia di lavoratori, che possono a giusto titolo essere considerati precari. In effetti, ad eccezione dei dipendenti con contratto di formazione lavoro (CFL)28, dopo 36 mesi perviene a un impiego stabile soltanto il 41,1% dei dipendenti con contratto a tempo determinato, il 34,8% degli apprendisti (fra i quali ben 1 su 4 è ancora apprendista dopo tre anni) e il 40,7% degli interinali. In altre parole, in queste tre categorie di lavoro dipendente a termine il 60% o più dei lavoratori non ottiene un’occupazione stabile dopo 36 mesi.
Precarietà e lavoro parasubordinato
- 29 Cfr. Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari (...)
37Conclusioni del tutto simili si ricavano da un altro studio recente fatto a partire dai dati riguardanti i lavoratori iscritti alla Gestione Separata dell’Inps (Istituto nazionale previdenza sociale)29. In base alla riforma del sistema pensionistico (legge 333/1995), l’Inps dà tutela previdenziale ai lavoratori autonomi operando una gestione separata dei loro contributi. Per lavoratori autonomi si intende sia quelli che esercitano abituale attività di lavoro autonomo per professione (secondo l’art. 2222 c.c.), sia quelli che prestano collaborazioni coordinate e continuative (ormai regolamentate, come visto, dalla disciplina del lavoro a progetto) con soggetti committenti. Il lavoratore iscritto alla Gestione Separata dell’Inps può essere titolare di Partita IVA, nel qual caso effettua direttamente i propri versamenti previdenziali alla Gestione Separata, oppure non titolare di Partita IVA, nel qual caso il versamento viene effettuato per lui dal suo committente.
- 30 Al di là dei limiti precisi definiti nell’ambito di questo studio, l’espressione “lavoro parasubord (...)
- 31 Si noti che, sul piano numerico, vi è una forte differenza fra le 392.000 Co.Co.Co. del 2007 contab (...)
38All’interno della popolazione totale degli iscritti alla Gestione Separata, lo studio in questione si concentra in particolare sui cosiddetti “parasubordinati”, cioè sui lavoratori senza Partita IVA che nel corso del 2007 hanno avuto almeno un versamento da parte di un committente30. I parasubordinati così definiti, che nel 2007 erano in totale 1.566.97831, costituiscono una nebulosa composta da una gran varietà di lavoratori più o meno “autenticamente” indipendenti che include sia soggetti come gli amministratori, i sindaci o i revisori di società e i partecipanti a commissioni, i quali rappresentano nel complesso circa un terzo dei parasubordinati, sia i titolari di contratti di collaborazione coordinata continuativa o gli associati in partecipazione, che costituiscono i restanti due terzi.
39Gli autori dello studio osservano tuttavia che, se una quota non trascurabile di tutti questi soggetti (il 32%, in maggioranza amministratori e assimilati) può avvalersi anche di altre fonti di reddito, da lavoro dipendente o da pensione, che vengono a completare gli introiti prodotti dai contratti di collaborazione, molti altri, in special modo le donne e i giovani, non possono contare su un “doppio reddito” e vivono perciò in condizioni di maggior debolezza. Questi ultimi costituiscono un segmento specifico di parasubordinati “precari”:
- 32 Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari?, ci (...)
Abbiamo definito [tali lavoratori] “a rischio di precarietà” in quanto titolari di contratti atipici e con reddito esclusivamente da lavoro parasubordinato. Abbiamo in tal modo verificato l’esistenza di una demarcazione fra i lavoratori parasubordinati “forti” che vivono discretamente bene la loro condizione di flessibilità, e i lavoratori “deboli” che invece debbono fare i conti con condizioni contrattuali ed economiche che comportano notevoli difficoltà di reddito, identificando situazioni di potenziale vulnerabilità sociale e di vera e propria precarietà32.
- 33 I rapporti di lavoro parasubordinato a rischio di precarietà sono ampiamente maggioritari fino ai 3 (...)
- 34 Stesse conclusioni permette di trarre la ricerca già citata del Ministero del Lavoro, secondo la qu (...)
40 Il segmento “debole”, peraltro, è quello in cui maggiormente si cristallizzano le ben note discriminazioni di sesso, di età e di ubicazione geografica, in quanto nel sub-universo dei collaboratori a “rischio di precarietà” prevalgono soprattutto le donne, i giovani33 e i lavoratori del Centro-Sud34. Con particolare riguardo alla dislocazione territoriale del lavoro parasubordinato “debole” e a rischio di precarietà, è doveroso sottolineare lo stato allarmante della situazione, che vede riprodursi sistematicamente la spaccatura e i tradizionali dualismi del Paese:
- 35 Tale valore nel 2007 è pari al 53,4%, essendo a rischio di precarietà 836.518 lavoratori parasubord (...)
- 36 Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari?, ci (...)
Sono le regioni del Centro-Sud quelle ove si concentrano i precari: in Calabria e nel Lazio, sono precari tre subordinati su quattro (rispettivamente 75,7% e 72,9%) [...]. Al Nord la situazione cambia radicalmente; infatti si ha una prevalenza di lavoratori tipici e la quota di lavoro precario si colloca al di sotto del valore medio nazionale35. L’area con il minimo di lavoro precario, solo del 29,5%, si trova proprio nell’Italia Settentrionale, in Trentino. Per concludere la “mappa della precarietà”, segnaliamo alcune province (tutte del Nord-Est), dove il lavoro precario costituisce una parte davvero ridotta del lavoro flessibile. In questo senso vanno menzionate, ad esempio, le province di Vicenza [...], di Sondrio [...] e di Bolzano [...]. I risultati appena descritti sono allarmanti in quanto confermano l’esistenza di due Italie caratterizzate da condizioni di lavoro e di vita estremamente diverse: il Nord, specialmente le aree maggiormente industrializzate e con imprese di maggiori dimensioni, dove la presenza di lavoratori parasubordinati è minoritaria e la precarietà è l’eccezione; il Centro-Sud, dominato da imprese terziarie e con un maggior tasso di disoccupazione, dove il ricorso al lavoro parasubordinato e a quello precario è una prassi consolidata. Tale tendenza sembra non subire alcuna variazione significativa a distanza di tre anni: già nel 2005 avevamo segnalato che il lavoro parasubordinato comportava il rischio di aggravare le forme di disuguaglianza sociale che tormentano le regioni del Mezzogiorno, rendendo vani gli interventi di sostegno sociale che caratterizzano tale territorio. Il lavoro flessibile, che potrebbe rappresentare per il Sud una possibile via d’emersione dal lavoro nero, configurandosi invece come precariato diviene un ulteriore elemento di esposizione al rischio sociale. E aggrava la condizione soprattutto di quei soggetti che sono già deboli sul mercato del lavoro, quali i giovani e le donne, che si trovano a subire solo gli aspetti negativi del lavoro flessibile36.
- 37 Ibid., p. 15.
41 L’analisi del lavoro parasubordinato è interessante anche sotto l’aspetto dei redditi che, come detto, rappresentano uno degli elementi in base ai quali è possibile apprezzare lo stato di maggiore o minore insicurezza, e dunque di precarietà, di un individuo. Se ne ricava allora una demarcazione assai netta fra due categorie di parasubordinati. Da un lato quella degli amministratori, dei sindaci e revisori di società e dei partecipanti a commissioni: questi soggetti – che, pur rientrando nell’universo dei parasubordinati, non vengono considerati “atipici”, in quanto svolgono un’attività tipicamente professionale o gestionale – nel triennio 2005-2007 hanno percepito aumenti annui di reddito dell’ordine di 2000-3000 euro. Pur non potendo contare su altri redditi che completino quelli percepiti nella Gestione Separata, tali soggetti possono essere considerati dei parasubordinati “forti”, poiché, disponendo di un imponibile medio di quasi 35.000 euro all’anno, “verosimilmente riescono a condurre una vita se non agiata, quanto meno tranquilla sotto il profilo economico”37. Dall’altro lato, la categoria dei “veri” parasubordinati “atipici”, ossia i collaboratori a progetto e assimilati, i cui redditi annui
- 38 Ibid., p. 14.
passano nel triennio [2005-2007] da 8.400 a 8.800 euro, con un aumento quindi tanto limitato (4,8%, pari a 405 euro) da impedire il recupero dell’inflazione reale. Ciò indica inequivocabilmente, per [tali lavoratori] un costante peggioramento delle condizioni economiche in cui prestano la loro opera38.
42 Ma oltre che dal livello dei redditi, il grado più o meno elevato di precarietà è determinato anche dal rischio di interruzione della loro percezione. Chi dipende da un solo committente (monocommittenza) e ha una sola fonte di reddito (esclusivamente da lavoro parasubordinato) senza poterla cumulare ad altri introiti (da altre attività o da pensione), si trova evidentemente in uno stato di precarietà superiore rispetto a chi può contare su una molteplicità di committenti e su più fonti di reddito. Lo studio rivela che, nel 2007, il 90,4% degli 836.518 parasubordinati a rischio di precarietà (che sono tali, ricordiamolo, in quanto titolari di contratti “veramente” atipici, cioè non da amministratore e da sindaco di società o assimilato, e perché dipendenti esclusivamente da un reddito di lavoro parasubordinato) erano per giunta monocommittenti. Osservando inoltre che proprio questi soggetti sono quelli che percepiscono mediamente i redditi annui più bassi (8.122 euro), si è necessariamente portati a pensare che esista una tendenza all’accumulo degli ostacoli per chi già è in difficoltà: alla precarietà si aggiunge insomma altra precarietà.
- 39 L’indicatore di persistenza è calcolato prendendo il numero di quei parasubordinati iscritti alla G (...)
- 40 Ibid., p. 20.
43 Lo studio citato sottolinea infine la notevole persistenza dell’atipicità per i lavoratori parasubordinati. Rispetto al metodo precedentemente descritto delle matrici di transizione, il procedimento è qui differente, ma fa emergere con la stessa evidenza il fenomeno della trappola della precarietà39. I parasubordinati, in particolare quelli definiti a rischio di precarietà, hanno contratti non superiori ai 12 mesi (da 1 a 6 mesi per circa il 45% di essi, da 6 a 12 mesi per circa il 55%) e possono vivere in tale situazione di stop and go per più anni. Ora, proprio per questi lavoratori i contratti di collaborazione dovrebbero avere invece un carattere più transitorio ed evolversi più rapidamente verso forme occupazionali stabili. Ciò, appunto, non avviene, confermando la persistente precarietà della loro situazione. I flussi fra i diversi tipi di parasubordinazione, nel biennio 2006-2007, sono infatti molto modesti: dei 502.974 parasubordinati che erano a rischio di precarietà nel 2006 (e che risultano “persistenti” perché facenti ancora parte della popolazione totale dei parasubordinati nel 2007, pari a 1.566.978 soggetti), il 98,5% è rimasto esattamente nella medesima condizione di “debolezza” e di precarietà lavorativa. Come fanno notare gli autori dello studio, si tratta di un autentico “intrappolamento” del lavoro flessibile, in quanto “i soggetti a maggior rischio di precarietà (i lavoratori atipici con un reddito esclusivo), sono quelli che più difficilmente riescono ad uscire dalla condizione contrattuale svantaggiata che avevano negli anni precedenti”40.
44Lungi dall’essere un fenomeno esclusivamente italiano, la trappola della precarietà riguarda un numero crescente di lavoratori anche in altri Paesi, come si osserva in uno studio del mercato del lavoro in Francia:
- 41 Concialdi, Pierre, “La France précarisée: un état des lieux”, in Husson, Michel (a cura di), Travai (...)
Sul totale delle persone presenti sul mercato del lavoro per tre anni successivi, la proporzione complessiva di individui che hanno sempre avuto impieghi a basso stipendio o che sono stati disoccupati è più che raddoppiata, passando dal 7,3% nel periodo 1983-1985 al 16,7% nel periodo 1998-2000 [...]. Questo aumento, particolarmente forte negli anni ’90, indica una maggiore persistenza del rischio di ricevere un basso stipendio, la quale tende a concentrarsi più che in passato in certe categorie di lavoratori. Lo sviluppo della precarietà da una ventina d’anni a questa parte è dunque incontestabile: una proporzione crescente di lavoratori si ritrova in zone grigie fatte di disoccupazione e di impiego instabile e/o mal retribuito da cui è sempre più difficile uscire. Insomma, lungi dall’essere una finestra aperta su forme di occupazione più stabili e meglio remunerate, l’impiego precario tende a rinchiudere i lavoratori nell’insicurezza41.
45Al di là delle specificità del lavoro parasubordinato, la precarietà delle occupazioni a termine dipende anche dal fatto che, in generale, sono quelle maggiormente esposte alle fluttuazioni negative del ciclo economico: quando il tasso di espansione dell’economia decelera o, peggio ancora, quando si entra in una fase di recessione, i lavori atipici – che per definizione sono i più “flessibili” – sono i primi a saltare:
- 42 Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., pp. 122 (...)
Nel 2007 quasi 2,3 milioni di persone sono risultate dipendenti a termine, con un aumento del 2,1 per cento rispetto ai livelli registrati nel 2006; rispetto agli incrementi registrati nel biennio precedente (i tassi medi annui erano stati prossimi agli 8 punti percentuali) la decelerazione è stata netta. Il contributo alla crescita dell’occupazione dipendente totale si è quindi ridotto notevolmente. Il rallentamento nella crescita dell’occupazione a termine è probabilmente un effetto del rallentamento congiunturale, il che conferma implicitamente che su questo stock di lavoratori si trasmettono in misura più rapida e intensa gli effetti delle fluttuazioni del ciclo42.
46Si consideri infine che la precarietà dei contratti atipici finisce per intaccare la solidità stessa dello “zoccolo duro” dei CDI, per un effetto di espansione a macchia d’olio – lento, ma continuo – che contamina tutte le categorie dell’impiego. Infatti, in Italia come in Francia i CDI rappresentano ancora la grande maggioranza dell’occupazione dipendente, ma il loro peso è diminuito nel corso del tempo. Non potendo sopprimere l’impiego dipendente a durata indeterminata in modo drastico e diretto, i governi neoliberisti hanno allora attuato politiche di accerchiamento destinate a indebolire progressivamente l’impiego stabile:
- 43 Husson, Michel, “La flexibilité, un remède au chômage?”, in Id. (a cura di), Travail flexible, sala (...)
Nel 2004, [in Francia i CDI rappresentano] ancora l’87% dell’impiego stabile, contro il 91% nel 1975. Le riforme liberiste tendenti a flessibilizzare l’impiego avanzano inesorabilmente, ma a passo di tartaruga. Di fronte alla resistenza delle norme del lavoro, la tattica usata è allora quella dell’accerchiamento. Essa consiste nello sviluppare, perifericamente ai CDI, dei contratti più flessibili, concentrati su determinate categorie (giovani, donne, seniors, immigrati) che diventano insomma i vettori delle mutazioni dell’occupazione. In tal modo, è possibile contaminare progressivamente il mercato del lavoro. Così, nel caso francese, i contratti a tempo determinato rappresentavano l’11,3% del lavoro dipendente, ma il 64% delle nuove assunzioni [...]. La segmentazione e il dualismo sono dunque i prodotti di questa tattica con cui si tenta di accerchiare il contratto di lavoro standard, non essendoci un rapporto di forze sufficiente per attaccarlo frontalmente43.
I fondamenti ideologici della flessibilità
47 Senza alcuna pretesa di esaustività, abbiamo tentato di misurare l’ampiezza del fenomeno della flessibilità del lavoro in Italia e della precarietà che vi si accompagna. Ma al di là delle cifre e delle statistiche, ci pare opportuno studiare la portata del fenomeno sul piano ideologico. In effetti, la nozione di flessibilità è parte integrante del modello neoliberista che ha orientato il processo di globalizzazione durante gli ultimi trent’anni, essendo al tempo stesso una componente essenziale e un effetto dell’ideologia e delle politiche economiche di cui si nutre il neoliberismo.
- 44 Cfr. Dardot, Pierre, Laval, Christian, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibéral (...)
48Sarebbe ovviamente troppo lungo esaminare qui la complessità di tale modello sociale. Basti ricordare che esso si fonda sull’estensione della razionalità economica – anzi, manageriale e imprenditoriale – a tutti i campi della vita individuale e collettiva, essendo suo scopo una rifondazione di tutta l’organizzazione sociale, e non soltanto della sfera economica, secondo nuove regole. Come spiegano chiaramente Pierre Dardot e Christian Laval44, non si tratta più tanto della razionalità fredda e calcolatrice dell’homo oeconomicus, quanto di una nuova razionalità da homo agens, propria del soggetto che è disposto a esporsi al rischio, percepito come elemento inerente alla “libertà” di “creare” e di “intraprendere”.
49L’homo agens di oggi è un individuo-imprenditore, un soggetto che deve agire in tutte le sfere della sua esistenza secondo la stessa logica con cui si comporterebbe il possessore di un “capitale” da far fruttare: sceglie le migliori scuole e università per “valorizzare” e “potenziare” la sua formazione, si crea un portafoglio-titoli, massimizza i risparmi e sceglie le migliori formule di assicurazione individuale per gli anni successivi al pensionamento, gestisce il suo “capitale” di salute scegliendo i migliori medici e i migliori ospedali, ecc. L’individuo diventa del resto qualcosa in più di un imprenditore: diventa egli stesso “impresa” autogestita, soggetto autocentrato e autoreferenziale, obbligato a vivere costantemente nel rischio e a gestirlo individualmente.
- 45 Pierre Dardot e Christian Laval insistono sul concetto di réussite e di performance, cioè di succes (...)
50Interiorizzata come valore, la razionalità imprenditoriale si impone allora come quadro normativo agli individui affinché accettino le regole della concorrenza come ratio stessa di tutta la loro esistenza, in tutti gli ambiti della vita. Meglio (o piuttosto, peggio) ancora, l’obiettivo è di incitarli a governare se stessi, ad autodisciplinarsi, sotto la pressione della concorrenza interpersonale e del bisogno compulsivo del risultato, della performance45.
51Tale trasformazione dell’individuo si verifica nel quadro di una più generale rifondazione della società nel suo complesso. L’arretramento del potere statale e delle tradizionali norme di comportamento collettivo a favore del libero gioco dell’economia di mercato e del laisser-faire sono pura apparenza, dietro alla quale si cela di fatto un’autentica “ri-regolamentazione” del corpo sociale attuata dai governi. Il loro ruolo rimane quindi cruciale per reimpostare e reincanalare lo svolgimento della vita sociale secondo nuove norme favorevoli a una classe di individui ben definita. In altri termini, l’apparente indebolimento dello Stato e della politica a beneficio della competizione e delle logiche di mercato è di per sé un atto politico, frutto di una progettualità e della volontà di privilegiare una élite rispetto ad altre classi di individui.
- 46 Esempio paradigmatico di tale evoluzione, è il recentissimo statuto di auto-imprenditore (auto-entr (...)
- 47 Per uno studio dei nuovi paradigmi individualisti e del “feticismo della libertà/soggettività”, cfr (...)
52È in tale contesto che si inserisce allora e va studiata la flessibilità del lavoro. È in questo quadro – fatto di concorrenza interpersonale in cui gli individui sono spinti a calarsi, di competitività, di crescente contrattualizzazione dei rapporti sociali, e non solo di lavoro – che si sono potuti diffondere i contratti atipici. Dietro a un’apparente libertà di scelta (si scelgono le proprie traiettorie di vita e la propria identità con la stessa facilità con cui si può scegliere un prodotto fra un’ampia gamma di beni di consumo), l’individuo postmoderno si transforma in imprenditore-impresa46: sta a lui gestire i successi di cui è artefice, ma anche i suoi fallimenti, dei quali sarà considerato unico responsabile e di fronte ai quali sarà dunque lasciato solo47. Secondo la stessa logica che gli riconosce la sovranità in qualità di consumatore e di produttore, sta a lui negoziare anche i rapporti di lavoro con il datore di lavoro, all’infuori delle rigidità imposte dai contratti collettivi, indesiderabile palla al piede ereditata dall’epoca fordista.
53Nei sistemi amministrativo-burocratici prevalenti in epoca fordista, tanto nella sfera dell’impresa privata quanto nel settore pubblico, l’individuo poteva contare su percorsi di carriera prestabiliti che, se non proprio certi, erano almeno probabili. Compatibilmente con i propri diplomi, con il proprio statuto professionale e con il posto occupato (valutato in relazione a una griglia di qualifiche professionali di riferimento), l’individuo aveva una certa probabilità di poter far valere le sue competenze e i suoi meriti per realizzare un piano di carriera soddisfacente. Oggi, titoli di studio, statuto e esperienze acquisite non garantiscono più granché. Ciò che conta è la performance del momento e, soprattutto, è la valutazione puntuale, fatta appunto in quel momento, a determinare e sancire l’eventuale evoluzione di carriera del soggetto. Proprio come avviene in un regime di mercato: se la domanda approva, il prodotto “funziona”.
54La flessibilità diventa allora una condizione indispensabile e “ovvia” dell’autogestione di questo individuo-impresa. Si noti tuttavia che, contrariamente a quanto sostiene la vulgata neoliberista, i mutamenti in atto sono il risultato non di un processo “naturale”, che si sviluppa da solo, bensì di un progetto politico chiaramente definito.
55Il leitmotiv del discorso neoliberista afferma infatti che l’economia è una sfera indipendente dalla politica; una sfera retta da processi “naturali” che sfuggono alla politica e che quest’ultima non è in grado di governare, essendo la globalizzazione un fenomeno ineluttabile che richiede sempre più deregolamentazione, privatizzazioni e concessione di margini di libertà agli operatori economici. Seguendo questo schema di razionalizzazione a posteriori – che andrebbe ribaltato, perché è proprio grazie alle politiche di deregolamentazione e di privatizzazione che la globalizzazione industrial-finanziaria si è potuta sviluppare –, è allora “normale” domandare meno leggi del lavoro e più negoziazione, meno norme rigide e più contratti morbidi, garantendo così la flessibilità che l’inasprimento della concorrenza internazionale esige e impone.
- 48 Sia detto fra parentesi che, per effetto dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro, l’impresa (...)
56In questa prospettiva, non sorprende che le imprese abbiano richiesto l’istituzione di nuovi strumenti giuridici – i contratti atipici, per l’appunto – al fine di sfuggire ai vincoli rigidi del Codice del lavoro. Ed è proprio qui che si apprezza il ruolo attivo e determinante del potere politico. In virtù di un atto volontario e, come tale, eminentemente politico, il legislatore decide di diminuire il suo proprio peso in quanto regolatore dei rapporti di lavoro, lasciando spazio a nuovi criteri di negoziazione individuale a livello di settore (fra padronato e sindacati) o, di preferenza, al livello ancora più basso della singola impresa (fra singolo datore di lavoro e singolo lavoratore, il cui potere contrattuale risulta così fortemente indebolito)48. Accade quindi che l’ex-dipendente subordinato venga a trasformarsi in collaboratore autonomo, pur restando totalmente dipendente, o quasi, dalle prestazioni lavorative che gli richiede il suo ex-datore di lavoro, diventato ora un cliente-committente.
- 49 Cfr. Renault, Emmanuel, “‘Soyez modernes: devenez flexibles !’: luttes idéologiques autour de la pr (...)
57Come già osservato, le nuove forme di flessibilità professionale rispondono in realtà a un progetto di rifondazione della società (incoraggiato dal padronato49), che si traduce in un’evoluzione del rapporto di forze fra capitale e lavoro destinata a favorire il primo e a sottomettere il secondo a nuovi criteri di dominazione. Il termine stesso di flessibilità nasconde peraltro questo processo di dominazione, dandogli una connotazione di apparente “neutralità”, confortata dalla “naturalezza” con cui si producono i processi economici e dal sedicente rigore scientifico con cui l’economia studia detti processi:
- 50 Dejours, Christophe, “La flexibilité, ou l’autre nom de la servitude”, in Husson, Michel (a cura di (...)
La flessibilità fa ormai parte dei fatti e se con questo termine si designa oggi la forma assunta dalla dominazione sociale, tale trasferimento terminologico non è puramente casuale. Esso connota un’evoluzione della concezione e dei metodi della dominazione, in quanto: 1) i progressi in materia di dominazione sociale passano specificamente attraverso l’organizzazione del lavoro e la sua trasformazione, cioè attraverso l’impresa; 2) il termine flessibilità, inflettendo la semantica della dominazione attraverso una connotazione economica, contribuisce a fondare quest’ultima su una legittimità scientifica e a trasformare gli impulsi del consenso alla sottomissione. [...] Per illustrare come l’evoluzione del lavoro e della sua organizzazione preceda l’evoluzione dei rapporti sociali, mediante l’aumento della precarizzazione e della dominazione, occorre dunque centrare l’analisi sull’organizzazione del lavoro: è lì che sta la piattaforma per sperimentare e lanciare nuove forme di dominazione sociale e politica. [...] La precarizzazione è una scelta organizzativa il cui obiettivo è politico e consiste in un incremento della dominazione50.
58Lo studio dei rapporti tra flessibilità e precarietà del mondo del lavoro, da noi condotto nel caso specifico dell’Italia, non può dunque essere dissociato da un’analisi più generale dell’evoluzione dei rapporti di forza fra capitale e lavoro e, in definitiva, del capitalismo stesso. Di conseguenza, gli strumenti analitici marxiani possono rivelarsi ancora utili e appropriati per smascherare il vero volto dei rapporti di dominazione nascosti dietro gli inganni semantici del nuovo linguaggio neoliberista. Così, la nozione di flessibilità e il suo impiego come nuova pratica e nuovo strumento dell’organizzazione del lavoro dovrebbero essere riconsiderati nella loro veste di mezzi impiegati dal capitale per far fronte all’instabilità e alle contraddizioni connaturate al capitalismo:
- 51 Bihr, Alain, La novlangue néolibérale. La rhétorique du fétichisme capitaliste, Lausanne, Editions (...)
Il capitalismo è il mondo generato dall’estensione spaziale e dall’espansione sociale di quel rapporto sociale di produzione che è il capitale; un mondo nel quale tutto è tendenzialmente subordinato, direttamente o indirettamente, alle esigenze del suo processo di produzione. Perciò stesso, tale mondo è profondamente e costituzionalmente instabile, cioè sottoposto a un incessante rivolgimento e a perpetue trasformazioni che condannano tutte le pratiche, le istituzioni e le rappresentazioni umane a una permanente metamorfosi [...]. Il fatto che il capitale non possa riprodursi senza stravolgere costantemente le sue proprie condizioni d’esistenza materiali, sociali, politiche, culturali, ecc., è dovuto essenzialmente alla sua natura contraddittoria e conflittuale [cioè, fra le altre cose] alla lotta di classe che oppone il capitale al lavoro, obbligando il primo a stravolgere le condizioni di sfruttamento e di dominazione del secondo per controbattere alla sua resistenza51.
- 52 Come osservano vari studiosi, l’analisi marxiana permette di chiarire come la flessibilità sia di p (...)
59In quest’ottica, flessibilità e contratti atipici rappresentano le nuove forme di dominazione cui è pervenuto il capitalismo nell’incessante processo di trasformazione che gli impone la sua propria instabilità. Ciò dovrebbe indurre allora a riflettere sulla vacuità delle critiche dirette unicamente contro la cupidità dell’impresa (critiche peraltro giustificate in casi purtroppo sempre più numerosi), così come sull’infondatezza delle proposte, fatte oggi da più parti, di “moralizzare” il capitalismo. La ricerca della flessibilità è inerente al capitalismo stesso, inteso come modo di produzione e di organizzazione della società. Ci sembra dunque che la critica dovrebbe investire in fine il capitalismo nel suo insieme e in tutte le forme che assume, essendo per sua propria natura generatore di nuovi rapporti di sfruttamento e di dominazione52.
Note
1 Ritorneremo in seguito sul processo di individualizzazione e di “contrattualizzazione” dei rapporti sociali nel quale si inserisce la destrutturazione dei contratti di lavoro collettivi, cui tendono a sostituirsi i contratti risultanti da trattative e negoziazioni individuali fra singola impresa e singolo lavoratore.
2 Numerose informazioni sono disponibili anche sui siti internet dell’Istat (cfr. soprattutto gli studi pubblicati nella sezione “Istruzione e lavoro” in http://www.istat.it/lavoro), dell’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori, http://www.isfol.it), del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, http://www.cnel.it) e del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali (http://www.lavoro.gov.it/lavoro). Per una visione critica dell’evoluzione del mondo del lavoro in Italia, suggeriamo di leggere le ricerche pubblicate sul sito del Centro Studi Trasformazioni Economico Sociali e della Federazione Nazionale delle Rappresentanze Sindacali di Base (http://www.proteo.rdbcub.it).
3 Cfr. Istat, Forze di lavoro. Media 2007, Annuario n. 13, 2008, pp. 75-76, in http://www.istat.it/dati/catalogo/20090202_00/ann0813forze_di_lavoro_media%202007.pdf (consultato il 18 aprile 2009); Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, settembre 2008, p. 91 e ss., in http://www.lavoro.gov.it/Lavoro/md/StudiStatistiche/lavoro (consultato il 23 febbraio 2009); Cnel, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, 15 luglio 2008, p. 122, in http://www.portalecnel.it/portale/documenti.nsf/0/C1256BB30040CDD7C125748600551A2B/$FILE/Mercato%20Lavoro%202007.pdf (consultato il 26 febbraio 2009).
4 Le forme di lavoro atipico possono essere raggruppate in quattro macro-categorie: A) forme di lavoro subordinato, comprendenti i CDD, il lavoro a tempo parziale (che in verità può essere anche a durata indeterminata), l’apprendistato, il contratto di formazione-lavoro (dal 2004 utilizzabile solo nel settore pubblico e non più in quello privato), il lavoro interinale (regolato dalla disciplina della “somministrazione di lavoro”), i contratti di inserimento, il lavoro intermittente o a chiamata (modificato dalla legge n. 247 del 2007) e il lavoro ripartito (o job-sharing); B) forme di lavoro autonomo, comprendenti il lavoro a progetto, le Co.Co.Co., i prestatori d’opera occasionale, il lavoro occasionale accessorio; C) forme di lavoro in associazione, comprendenti i contratti di associazione in partecipazione, i soci lavoratori di cooperativa e i coadiuvanti familiari (familiari che collaborano con il titolare-imprenditore); D) forme non costituenti veri e propri contratti di lavoro, comprendenti i lavori socialmente utili (L.S.U.), il tirocinio estivo, i tirocini formativi e di orientamento, il lavoro volontario. Per una descrizione dettagliata di tutte queste forme di lavoro atipico, vedasi http://www.atipici.net/wcm/atipici/sezioni/vademecum.asp (consultato il 7 marzo 2009).
5 Disciplinate dallo statuto del lavoro a progetto a partire dal 2003, le Co.Co.Co. sono sparite dal settore privato (tranne che per le prestazioni fornite da certe figure professionali, come gli agenti e i rappresentanti di commercio) e sopravvivono solo nel settore pubblico. Si osservi tuttavia che molte statistiche, come quelle dell’Istat (e quelle da noi presentate nel testo) continuano a fare riferimento a tale forma di lavoro atipico. Ciò detto, ricordiamo brevemente le caratteristiche principali delle collaborazioni a progetto (Co.Co.Pro.) nelle quali sono state riassorbite le Co.Co.Co.: “Come nella co.co.co., anche nella collaborazione a progetto il lavoratore agisce in modo prevalentemente personale, in assenza di rischio economico, senza mezzi organizzati d’impresa e in funzione del risultato da raggiungere; anche in questo caso il committente non deve esercitare su di lui il potere direttivo e il potere disciplinare. Il co.pro., però, per essere tale deve svolgere la sua attività in base al progetto, programma di lavoro o fasi di esso assegnatogli dal committente, gestendo autonomamente la propria attività [...]. La parola ‘coordinata’ indica la necessità di collegare funzionalmente l’attività del lavoratore al ciclo produttivo del committente. Il d.lgs 276/03 ha introdotto anche il concetto che il coordinamento con l’organizzazione del lavoro del committente va realizzato in funzione del risultato da raggiungere, ma indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa [...]. Per il contratto a progetto la legge non prevede una durata minima o massima, ma dispone che, nei contratti individuali, debba essere indicata la durata della prestazione di lavoro” (Nidil, Cgil, I collaboratori coordinati e continuativi a progetto: co.pro. o lap, in http://www.nidil.cgil.it/pagina.php?Id_Tipologia=3&Id_Pag=34&Colore_Pagina=2&Id_Voce=32&Tipo_Voce=3, consultato il 19 aprile 2009). Per quanto riguarda la figura del prestatore d’opera occasionale, questi “deve poter svolgere la sua attività in modo autonomo e non essere vincolato, dal committente, ad orari rigidi e predeterminati, fatte salve ovviamente specifiche esigenze dell’azienda. In questo tipo di collaborazione, quindi, il lavoratore agisce in assenza di rischio economico, non è tenuto a rispettare un orario di lavoro preciso e la sua attività va intesa non come strutturale all’intero ciclo produttivo, ma solo come di supporto al raggiungimento di obiettivi momentanei del committente” (Nidil, Cgil, Le collaborazioni occasionali: il lavoro autonomo occasionale, in http://www.nidil.cgil.it/pagina.php?Id_Tipologia=3&Id_Pag=298&Colore_Pagina=2&Id_Voce=66&Tipo_Voce=3, consultato il 19 aprile 2009). Si noti inoltre che il lavoro autonomo occasionale non deve avere né coordinamento con il committente, né continuità nella prestazione. La prestazione è infatti occasionale, ossia ha il requisito dell’unicità e della saltuarietà. In altri termini, viene affidato un unico incarico (benché l’assolvimento dello stesso possa richiedere una serie di atti esecutivi da compiersi nel corso di un certo periodo di tempo), che non viene dunque reiterato più volte.
6 La stessa ricerca rivela inoltre che il fenomeno è stato particolarmente intenso nel settore dell’industria in senso stretto (escluse le costruzioni), dove i dipendenti con CDD sono aumentati dal 5,9% del totale dipendenti al 9,1% fra il 1993 e il 2007 (cfr. Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, cit., p. 93).
7 Cfr. Cnel, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., p. 122. In effetti, l’aumento di 360.000 lavoratori dipendenti a tempo determinato nel periodo 2004-2007 (come si ricava dalla Tavola 4) è pari a più di un terzo (34,3%) dell’aumento totale di lavoratori dipendenti (passati, nello stesso quadriennio, da 16.117.000 a 17.167.000).
8 Considerando il solo universo dei lavoratori a termine (dipendenti a tempo determinato, Co.Co.Co., prestatori d’opera occasionale), nel 2007 la classe dei giovani di 15-24 anni rappresentava il 21,6% del totale, la classe 25-29 anni il 19%, la classe 30-34 anni il 15,9%, la classe 35-39 anni il 13,1% (essendo il restante 30,4% rappresentato dalla classe miscellanea 40 + anni). L’incidenza è dunque maggiore man mano che si procede verso le classi d’età più bassa (cfr. Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, cit., p. 96).
9 Istat, Università e lavoro: orientarsi con la statistica, 2008, pp. 40-41, in http://www.istat.it/lavoro/unilav/unilav2008.pdf (consultato il 25 febbraio 2009).
10 In generale, lo studio dell’Istat sottolinea che circa tre laureati su quattro, fra quelli che hanno trovato un lavoro a termine, non hanno avuto la possibilità di scegliere una soluzione migliore: per la precisione, il 77,4% di quelli aventi una laurea lunga e il 72,8% di quelli aventi una laurea triennale (ibid., p. 42).
11 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2007, Roma, 2008, p. 178, in http://www.istat.it/dati/catalogo/20080528_00/rapporto2007.pdf (consultato il 26 febbraio 2009).
12 Il tasso di disoccupazione è il rapporto “persone in cerca di lavoro / forza lavoro”, cioè la percentuale rappresentata dagli individui alla ricerca di un impiego (dipendente o autonomo) sul totale di individui che costituiscono la forza lavoro del Paese (la quale corrisponde all’insieme degli occupati – cioè tutti coloro che hanno già un impiego, dipendente o autonomo – e di tutti coloro che sono appunto alla ricerca di un impiego).
13 Cfr. Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., p. 48. Il tasso d’occupazione è il rapporto “occupati / popolazione di età ≥ 15 anni”.
14 Cfr. Mandrone, Emiliano, Massarelli, Nicola, Quanti sono i lavoratori precari ?, in http://www.lavoce.info/articoli/pagina2633.html; Mandrone, Emiliano, Quando la flessibilità diviene precarietà: una stima sezionale e longitudinale, Studi Isfol, n. 2008/6, in http://www.isfol.it/Studi_Isfol/Dettaglio_Studi/index.scm?codi_percorso=51&studi=1; Id., La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’indagine isfol Plus 2006, Studi Isfol n. 2008/1, in http://www.isfol.it/DocEditor/test/File/Studi_Isfol_Occupazione_n.1(1).pdf (siti consultati il 26 febbraio 2009).
15 Come si è segnalato nella nota 5, il legislatore italiano è intervenuto nel 2003 per limitare gli abusi verificatisi in tal senso negli anni precedenti.
16 L’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) è un centro di ricerca pubblico che svolge e promuove attività di studio, di sperimentazione, di documentazione, di valutazione, d’informazione e di consulenza per lo sviluppo della formazione professionale, delle politiche sociali e del lavoro. Nel 2006, in particolare, l’Isfol ha effettuato un’inchiesta presso un campione di 40.000 individui, intervistandoli allo scopo di conoscere la qualità del loro impiego attraverso la percezione che essi stessi ne avevano. Cfr. Mandrone, Emiliano, La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’indagine Isfol Plus 2006, cit.
17 La colonna che nella Tavola 9 abbiamo denominato “Contratti a tempo determinato” viene definita dall’autore, nella sua versione originale, “Lavoro a tempo determinato”. Come già detto, però, secondo l’Istat il lavoro a termine include, oltre al lavoro dipendente (ove rientrano peraltro i contratti di formazione lavoro e di apprendistato), anche il lavoro atipico autonomo. Possiamo desumerne quindi che, con l’espressione “Lavoro a tempo determinato”, l’autore volesse riferirsi alla tipologia rappresentata specificamente dai contratti di lavoro dipendente a tempo determinato.
18 Cfr. Mandrone, Emiliano, La riclassificazione del lavoro tra occupazione standard e atipica: l’indagine Isfol Plus 2006, cit., pp. 8-9.
19 Per mantenere omogenea la terminologia utilizzata, nella Tavola 10 abbiamo denominato “Prestatori d’opera occasionale” la colonna che, nella versione originale, l’autore indica con l’espressione “Collaborazione occasionale (ritenuta d’acconto)”. Si tratta apparentemente della stessa tipologia di lavoro atipico, essendo il corrispettivo economico dei prestatori d’opera occasionali assoggettato a una ritenuta d’acconto del 20%. Per quanto concerne la categoria “Attività in proprio (Partita IVA)”, l’autore si riferisce evidentemente ai soggetti che esercitano per professione abituale delle attività di lavoro autonomo e sono quindi titolari di Partita IVA. A differenza delle altre categorie professionali indicate nella Tavola 10, i titolari di Partita IVA possono essere considerati dei “veri” autonomi, benché non si possa escludere che “i vincoli posti all’utilizzo delle collaborazioni e in particolare di quelle occasionali, largamente abusate soprattutto nel settore pubblico negli anni precedenti alla riforma del mercato del lavoro, abbiano portato una quota crescente di collaboratori ad aprire una Partita IVA, per continuare a svolgere presso gli stessi committenti le medesime attività svolte in precedenza comme collaboratore” (Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari? Rapporto 2008 sui lavoratori parasubordinati iscritti alla Gestione Separata INPS, Roma, Università Sapienza, giugno 2008, p. 31, in http://www.dinicola.it/osserv/rapporto_2008.pdf, consultato il 19 aprile 2009).
20 Si noti tuttavia che “il dlgs 276/03 stabilisce [...] che il lavoratore a progetto gode di autonomia nelle modalità di esecuzione della prestazione ma, all’interno del contratto individuale, è possibile anche prevedere forme temporali di coordinamento per l’esecuzione della prestazione lavorativa. Questo significa che nel contratto individuale si può legittimamente definire anche un orario della prestazione” (Nidil, Cgil, I collaboratori coordinati e continuativi a progetto: co.pro. o lap, cit.).
21 Peraltro, nella grande maggioranza dei casi gli intervistati rispondono affermativamente alla domanda “Lei desidererebbe trasformare il suo attuale rapporto di lavoro in un contratto a tempo indeterminato?”, ma che simile prospettiva è considerata improbabile o impossibile da un’ampia percentuale di essi (dal 60% all’80%, a seconda del loro statuto di Co.Co.Co., di collaboratore occasionale, di lavoratore a progetto o di autonomo con Partita IVA).
22 Renault, Emmanuel, “‘Soyez modernes: devenez flexibles!’: luttes idéologiques autour de la précarité et de la flexibilité”, in Husson, Michel (a cura di), Travail flexible, salariés jetables. Fausses questions et vrais enjeux de la lutte contre le chômage, Paris, La Découverte, 2006, p. 39 (nostra traduzione).
23 Per la precisione, il 14,8% ha ottenuto un CDI e l’1,6% è entrato nella categoria degli autonomi.
24 Per ragioni di spazio e per facilitare la lettura della matrice, non abbiamo indicato le transizioni orizzontali da uno statuto atipico all’altro: per esempio, il 6,6% dei Co.Co.Co. e il 9,1% dei prestatori d’opera occasionale sono diventati dipendenti a tempo determinato nel 2007. Si constata tuttavia una forte persistenza al proprio interno di ognuna di queste categorie: il 67,7% dei dipendenti a tempo determinato del 2006, il 70,3% dei Co.Co.Co. del 2006 e il 58,5% dei prestatori d’opera occasionale del 2006 non hanno infatti cambiato di statuto nel 2007.
25 Questa cifra raggruppa gli individui in cerca di un’occupazione e quelli usciti dalla forza lavoro. Se si considerano solamente i primi, si osserva una marcata involuzione verso la precarietà: il 24,5% di essi era infatti ancora in cerca di occupazione nel 2007 e il 44,2% è passato nelle “non forze di lavoro” (in totale, dunque, il 68,7% non aveva trovato impiego), mentre solo il 16,7% ha trovato un impiego stabile (il 12,1% con un CDI, il 4,6% come autonomi) e il 14,6% ha trovato un lavoro a termine (il 12,7% come dipendente a tempo determinato, l’1,4% come Co.Co.Co. e lo 0,5% come prestatore d’opera occasionale).
26 In certi settori e per certe attività, il ricorso ai contratti atipici è ritenuto una pratica abituale. Ciò avviene per esempio nel turismo e nell’agricoltura, il carattere stagionale delle cui attività spiega la diffusione del lavoro a termine.
27 Cfr. Mandrone, Emiliano, Quando la flessibilità diviene precarietà: una stima sezionale e longitudinale, cit., p. 8.
28 I maggiori flussi di transizione di dipendenti con CFL verso un impiego stabile sono probabilmente dovuti ai vincoli che tale tipo di contratto impone al datore di lavoro. Il CFL è infatti un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato che si caratterizza per la durata, che è tassativamente di 12 o 24 mesi, e per il fatto che può essere stipulato solamente da datori di lavoro che, al momento della richiesta di avviamento, abbiano mantenuto in servizio almeno il 60% di coloro che avevano un contratto identico nei 24 mesi precedenti. Il nuovo ricorso a tale contratto, dunque, implica spesso la conversione in CDI di un’ampia percentuale dei CFL già impiegati.
29 Cfr. Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari?, cit.
30 Al di là dei limiti precisi definiti nell’ambito di questo studio, l’espressione “lavoro parasubordinato” è oggi d’uso corrente. Nel diritto italiano, essa fa riferimento ad attività che presentano caratteristiche intermedie tra quelle del lavoratore subordinato (che, ai sensi dell’art. 2094 c.c., opera “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”) e quelle del lavoratore autonomo (che, in base all’art. 2222 c.c., “si obbliga a compiere [...] un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione”). Tali attività, in cui sono compresenti condizioni di autonomia e di subordinazione, sono appunto quelle dei contratti “atipici”, in particolare quelli da lavoro “autonomo” delle collaborazioni coordinate continuative. Proprio per ovviare all’assenza di una disciplina legale specifica delle Co.Co.Co., il legislatore è intervenuto, come già detto, con il d.lgs 276/2003, il quale ha introdotto il contratto a progetto come tipo contrattuale dei rapporti Co.Co.Co., diversi dall’agenzia e dalla rappresentaza commerciale.
31 Si noti che, sul piano numerico, vi è una forte differenza fra le 392.000 Co.Co.Co. del 2007 contabilizzate dal Ministero del Lavoro, che si basa sulle rilevazioni dell’Istat (cfr. supra Tavola 2), e i 1.566.978 “parasubordinati” registrati dall’Inps nello stesso anno. Il rapporto da noi precedentemente citato del Ministero del Lavoro sottolinea infatti che il forte divario di tali dati si spiega per due ragioni. In primo luogo, il dato Inps accumula tutti i “soggetti attivi” (cioè quelli che hanno beneficiato di almeno un versamento all’Inps da parte di un loro committente) registrati in tutto l’arco dell’anno, mentre nella rilevazione dell’Istat il riferimento è “specifico”, ossia si conta il numero di collaboratori atipici nel preciso momento della rilevazione (e non il numero totale cumulato in tutto l’anno). In secondo luogo, l’Istat include nei Co.Co.Co. solo i soggetti per i quali la collaborazione coordinata continuativa rappresenta l’occupazione prevalente e l’elemento fondante della condizione lavorativa, escludendo così sia i soggetti per i quali la collaborazione è un’attività secondaria, sia i soggetti come gli amministratori di società, i professionisti e i componenti del collegio dei revisori, i quali rientrano invece nel conteggio fatto dall’Inps per valutare il numero di parasubordinati.
32 Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari?, cit., p. 3. Gli autori osservano però che il fenomeno del lavoro parasubordinato si è progressivamente stabilizzato. Dopo la fortissima espansione del periodo 1996-2004, in cui si era registrato un aumento totale del 108% (con un incremento medio annuo del 9,6%), nei successivi periodi 2005-2006 e 2006-2007 l’aumento è stato, rispettivamente, soltanto del 3,5% e del 2,4%. La stabilizzazione si è verificata in special modo nel segmento “debole”: “Un ulteriore segnale positivo viene dalla riduzione [nel 2007] di oltre 20 mila unità dei lavoratori a rischio di precarietà (cioè titolari di un contratto atipico, in maggioranza di collaborazione, e reddito esclusivo da lavoro parasubordinato), che sono passati dagli 858.388 del 2006 agli 836.493 del 2007. Su tali risultati, molto probabilmente, hanno pesato tre fattori principali: 1) l’attenzione che il ministero del Lavoro ha attribuito nel 2006-07 alla lotta alla precarietà e alle ‘false collaborazioni’, anche a seguito dei risultati di varie visite ispettive condotte dagli organi preposti; 2) l’aumento del contributo pensionistico di ben 5 punti percentuali rispetto al reddito, che ha reso meno conveniente per le aziende il ricorso alle collaborazioni; 3) gli incentivi alla stabilizzazione, che hanno introdotto una legislazione premiante per le aziende che trasformano le collaborazioni in lavoro dipendente” (ibid., p. 4).
33 I rapporti di lavoro parasubordinato a rischio di precarietà sono ampiamente maggioritari fino ai 35 anni di età: il 96,5% dei casi nella classe d’età ≤ 20 anni, il 92,2% nella classe 21-25 anni, l’82,6% nella classe 26-30 anni e il 68,5% nella classe 31-35 anni (ibid., p. 6).
34 Stesse conclusioni permette di trarre la ricerca già citata del Ministero del Lavoro, secondo la quale la precarietà tende a colpire soprattutto i soggetti tradizionalmente più fragili sul mercato del lavoro, ovvero le donne, i giovani, i meno istruiti e i lavoratori del Mezzogiorno. Infatti, sul totale di coloro che nel 2006 avevano un lavoro a termine (dipendenti a tempo determinato, Co.Co.Co. e prestatori d’opera occasionale) e che nel 2007 si sono ritrovati senza lavoro (non occupati, cioè in cerca di occupazione, o inattivi, cioè usciti dalle forze di lavoro), i soggetti più colpiti sono le donne (il 14,1%, contro il 12% degli uomini), i minori di 25 anni (il 14%, benché tale proporzione non sia molto maggiore che nelle altre classi d’età), i lavoratori con solo diploma di licenzia media (il 16,7%, contro il 12,6% dei lavoratori con diploma di studi superiori e l’8,2% di quelli aventi un diploma universitario) e i lavoratori del Mezzogiorno (il 16,3%, contro l’11% dei lavoratori situati nel Nord-Ovest, nel Nord-Est e nel Centro). Cfr. Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali, Rapporto di monitoraggio delle politiche occupazionali e del lavoro, cit., p. 106.
35 Tale valore nel 2007 è pari al 53,4%, essendo a rischio di precarietà 836.518 lavoratori parasubordinati su un totale di 1.566.978.
36 Di Nicola, Patrizio, Mingo, Isabella, Bassetti, Zaira, Sabato, Mariangela, Stabilmente precari?, cit., pp. 8-9. Va comunque osservato che nelle Marche, dunque in una regione del Centro, nel 2007 solo 4 parasubordinati su 10 sono a rischio di precarietà. Tale tasso è nettamente al di sotto della media nazionale e perfettamente in linea con quello di altre regioni come l’Emilia Romagna, la Toscana e il Friuli Venezia Giulia. Sarebbe quindi interessante studiare se queste regioni, che compongono tipicamente la “terza Italia” dei distretti industriali, sfuggano almeno in parte all’attuale processo di precarizzazione in virtù degli aspetti che contraddistinguono, appunto, il modello socio-economico distrettuale.
37 Ibid., p. 15.
38 Ibid., p. 14.
39 L’indicatore di persistenza è calcolato prendendo il numero di quei parasubordinati iscritti alla Gestione Separata nel 2007 che erano tali anche nel 2006 (ossia 1.078.381 soggetti), e rapportandolo al numero totale di parasubordinati iscritti nel 2007 (1.566.978). Tale rapporto (0,688) indica dunque che nel 68,8% dei casi i parasubordinati del 2007 erano tali anche l’anno precedente. Allo stesso modo, considerando il numero di parasubordinati del 2007 che erano tali non solo nel 2006, ma anche nel 2005 (789.690 soggetti), e dividendolo per il numero totale di parasubordinati del 2007 (sempre 1.566.978), si osserva che il 50,4% di questi ultimi è rimasto parasubordinato nel corso del triennio considerato.
40 Ibid., p. 20.
41 Concialdi, Pierre, “La France précarisée: un état des lieux”, in Husson, Michel (a cura di), Travail flexible, salariés jetables, cit., p. 26 (nostra traduzione).
42 Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Rapporto sul mercato del lavoro 2007, cit., pp. 122-123.
43 Husson, Michel, “La flexibilité, un remède au chômage?”, in Id. (a cura di), Travail flexible, salariés jetables, cit., pp. 109-110.
44 Cfr. Dardot, Pierre, Laval, Christian, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, Paris, La Découverte, 2009.
45 Pierre Dardot e Christian Laval insistono sul concetto di réussite e di performance, cioè di successo individuale, cui è condannato l’uomo d’oggi. La ricerca della performance, che si realizza tendendo costantemente al superamento di se stessi e spingendo sempre più in là i limiti da oltrepassare, è l’espressione di una “ultrasoggettivazione”, intesa come “una soggettivazione che mira sempre a un al di là di sé nel proprio io” (ibid., p. 437 nota 2, nostra traduzione). Per un’analisi dei nuovi criteri neoliberisti di controllo sociale, fondati su dei meccanismi di autodisciplina che l’individuo è stimolato ad attuare da sé, in sostituzione dei precedenti criteri di controllo “panottico”, rinviamo inoltre ai recenti lavori del sociologo Zygmunt Bauman (vedasi in particolare Consuming life, Cambridge, Polity Press Ltd., 2007).
46 Esempio paradigmatico di tale evoluzione, è il recentissimo statuto di auto-imprenditore (auto-entrepreneur) introdotto in Francia l’1 gennaio 2009 dal Secrétariat d’Etat aux PME, nel quadro della cosiddetta legge di “modernizzazione dell’economia”. Al di là del funzionamento di tale nuovo regime, volto a semplificare all’estremo la creazione di un’attività regolata dalla disciplina dell’entreprise individuelle, ciò che colpisce è la ridondanza dell’espressione stessa di auto-imprenditore, essendo la nozione di auto-nomia implicita in quella di imprenditore. Si esaspera cioè il carattere individuale dell’agire in società, il che conferma a che punto sia ormai assimilata e data per scontata la nozione di rischio: libero di scegliere e di autogovernarsi, l’individuo deve accettare di assumersi le sue responsabilità e i rischi che comportano le sue scelte. I già citati Pierre Dardot e Christian Laval osservano come il discorso convenzionale (secondo cui, in quanto uomo “responsabile”, il soggetto deve badare da solo al proprio destino) tenda a colpevolizzare l’individuo, e in particolar modo il disoccupato, come già facevano del resto le Poor Laws nell’Inghilterra dell’Ottocento (cfr. Gray, John, Falso amanecer. Los engaños del capitalismo global, Barcelona, Paidós, 2000). Il disoccupato non deve sperare nella solidarietà collettiva e in un’assistenza prolungata, ma darsi da fare per cogliere le “opportunità” che il “mercato” del lavoro non cessa di offrirgli. La flessibilità dell’auto-imprenditore e dei contratti atipici è dunque funzionale a questa logica. A ciò aggiungasi il peso del giudizio negativo che la società – sotto la pressione del discorso ideologico dominante – emette su chi non accetta di sottoporsi al rischio. Coloro che difendono la solidarietà collettiva e il sostegno collettivo all’individuo in difficoltà sono considerati oggi dei retrogradi o, peggio ancora, dei conservatori, difensori di un sistema vecchio che scoraggia l’innovazione, il progresso e la creatività. La nozione di rischio si maschera così sotto quella della creatività, dell’inventività, della piena autorealizzazione: come l’artista reinventa costantemente la sua opera, potendola sviluppare in direzioni molteplici e sempre nuove, così il lavoratore può affrancarsi dalle rigide catene dell’impiego subordinato reinventandosi un’attività professionale in ogni momento. Il rischio della precarietà ne esce allora riabilitato, trattandosi della contropartita “normale” della discontinuità e dell’imprevedibilità del lavoro d’artista (cfr. Renault, Emmanuel, “‘Soyez modernes: devenez flexibles !’: luttes idéologiques autour de la précarité et de la flexibilité”, cit.).
47 Per uno studio dei nuovi paradigmi individualisti e del “feticismo della libertà/soggettività”, cfr. Bauman, Zygmunt, Consuming life, cit. e Id., Work, consumerism and the new poor, Buckingham, Open University Press, 1998.
48 Sia detto fra parentesi che, per effetto dell’individualizzazione dei rapporti di lavoro, l’impresa perde progressivamente la connotazione di luogo dove convergono uomini ed energie per condurre collettivamente le lotte sociali, trasformandosi in luogo di confronto competitivo in cui ogni lavoratore, operando da giocatore isolato, tenta di preservare il proprio impiego e i vantaggi già acquisiti, secondo una logica puramente individuale (a tale proposito, vedasi per esempio Linhart, Danièle, “Hier solidaires, désormais concurrents”, in Le Monde diplomatique, mars 2006, pp. 16-17). La segmentazione del mercato del lavoro, risultante dalla diffusione dei contratti atipici, risponde dunque all’obiettivo del capitale di stabilire nuove condizioni per mantenere o accrescere la capacità di sfruttare e dominare il lavoro.
49 Cfr. Renault, Emmanuel, “‘Soyez modernes: devenez flexibles !’: luttes idéologiques autour de la précarité et de la flexibilité”, cit.
50 Dejours, Christophe, “La flexibilité, ou l’autre nom de la servitude”, in Husson, Michel (a cura di), Travail flexible, salariés jetables, cit., pp. 54-55, 56 e 62.
51 Bihr, Alain, La novlangue néolibérale. La rhétorique du fétichisme capitaliste, Lausanne, Editions Page deux, 2007, pp. 61 e 62 (nostra traduzione).
52 Come osservano vari studiosi, l’analisi marxiana permette di chiarire come la flessibilità sia di per sé un elemento intrinseco del processo – studiato, appunto, e messo in luce da Marx – di spogliazione e riduzione di una moltitudine di lavori diversi in frazioni di una forza sociale di lavoro unica e astratta (il “lavoro astratto”, cioè il lavoro indistinto socialmente uguagliato dallo scambio commerciale che ha luogo nell’economia di mercato, ove i produttori privati e indipendenti – proprietari dei mezzi di produzione – comparano e uguagliano i prodotti della loro attività, scambiandoli proporzionalmente al loro valore): “La riduzione di una moltitudine di lavori particolari a lavoro generale o lavoro astratto non è un atto teorico di astrazione. Si compie continuamente nella realtà concreta dell’economia di mercato, innanzitutto a causa del passaggio ininterrotto degli individui da un impiego all’altro, e inoltre a causa del passaggio, all’interno di un medesimo impiego, da un compito all’altro, nel quadro della flessibilità tanto ricercata dall’impresa privata” (Gill, Louis, Fundamentos y límites del capitalismo, Madrid, Editorial Trotta, 2002, p. 98; nostra traduzione). Ma oltre a problematiche di flessibilità “interna”, si può notare come la deregolamentazione del mercato del lavoro e la flessibilizzazione dell’impiego (in termini di facilitazioni concesse al capitale nell’assumere e nel licenziare i lavoratori) svolgano un ruolo fondamentale, dal punto di vista del capitale, per aumentare il tasso del plusvalore e dunque il saggio di profitto (cfr. Albarracín, Jesús, La economía de mercado, Madrid, Editorial Trotta, 1991, pp. 219-221). Ai fini del nostro ragionamento, e a conforto della tesi da noi sostenuta, è interessante l’osservazione di chi sottolinea come le nuove forme atipiche del lavoro siano in realtà delle opzioni che permettono ai meccanismi del capitalismo di riattualizzarsi costantemente, senza limitarsi solo e necessariamente alle “tradizionali” forme di dominazione e sfruttamento del lavoro salariato e dipendente: “Non che non vi siano ‘norme’ di funzionamento del modo di produzione capitalistico: ma ogni ‘norma’ include al proprio interno – tanto logicamente quanto storicamente – una costellazione di ‘eccezioni’, che rientrano tra le sue condizioni di possibilità ma al tempo stesso costituiscono una sorta di riserva di opzioni che possono essere sempre attualizzate [...]. E questo accade in particolare proprio quando il ‘mercato del lavoro’ (l’insieme delle condizioni sociali, istituzionali, giuridiche, ‘antropologiche’ e spaziali che regolano lo scambio di forza lavoro contro salario) viene messo in tensione fino a saltare, attraverso processi che ripropongono in tutta la sua problematicità ciò che il mercato del lavoro stesso assume come presupposto: ovvero, la continuità e la ‘normalità’ della produzione della forza lavoro come merce” (Mezzadra, Sandro, La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Verona, ombre corte, 2008, pp. 135 e 139).
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Notizia bibliografica
Luca Marsi, « Flessibilità e precarietà del lavoro nell’Italia del XXI secolo», Narrativa, 31/32 | 2010, 347-378.
Notizia bibliografica digitale
Luca Marsi, « Flessibilità e precarietà del lavoro nell’Italia del XXI secolo», Narrativa [Online], 31/32 | 2010, online dal 01 juin 2022, consultato il 19 mai 2025. URL: http://journals.openedition.org/narrativa/1655; DOI: https://doi.org/10.4000/narrativa.1655
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