1In una celebre scena di un film di Woody Allen un rivoluzionario che ha appena guidato un colpo di stato pronuncia il suo primo discorso presidenziale davanti a una folla che lo acclama piena di aspettative: «d’ora in avanti – afferma solennemente – la lingua ufficiale del Bananas sarà lo svedese. A partire da ora tutti i cittadini saranno tenuti a cambiarsi la biancheria ogni trenta minuti. La biancheria sarà portata sugli indumenti per poter controllare. Oltre a ciò, tutti i ragazzi sotto il sedicesimo anno di età a partire da ora avranno sedici anni».
2Negli ultimi anni l’università italiana pare diventata una specie di stato di Bananas. In certi convegni frequentati solo da Italiani la lingua ufficiale è l’inglese, nelle abilitazioni la validità di certe opere è soggetta a scadenza periodica, le pubblicazioni sono diventate prodotti della ricerca da contare più che da leggere, ci sono riviste dotate di una specie di mana in grado di trasfigurare miracolosamente gli articoli che vi sono pubblicati, i ricercatori vivono ossessionati dalla sede editoriale in cui scrivono piuttosto che occuparsi seriamente di che cosa scrivono e alcuni di loro sembra non possano fare a meno di un metalibro sacro che custodisce magici e misteriosi algoritmi citazionali, in cui ne va del loro destino. Per giunta, sono ormai sempre meno coloro ai quali tutto questo pare assurdo e insensato, e che si chiedono allarmati (come nel film) «chi è che vende le camicie di forza?», constatando che «il potere deve aver dato alla testa» a chi gestisce il sistema di valutazione dell’università e della ricerca.
3Siamo certi che, se qualcuno in Bananas si fosse chiesto dopo quasi tre lustri se le regole imposte dal presidente avessero migliorato la vita dei cittadini, avrebbe trovato dei riscontri positivi. Da un certo momento in poi, infatti, cambiarsi la biancheria ogni trenta minuti sarebbe sembrata regola elementare di igiene. Così, è facile immaginare che se un’agenzia valuta la scienza per conto dello stato – avendo l’autorità di ottenere dai soggetti valutati comportamenti in linea con l’idea di qualità che essa stessa ha imposto – il fatto che i valutati abbiano ottemperato ai parametri da essa stabiliti apparirà come inequivocabile segno di “miglioramento” delle prestazioni del sistema della ricerca.
- 1 Gli accademici sarebbero ovviamente prima di tutto degli studiosi. Sennonché, per via della manager (...)
4Dal canto nostro, il tema non è se la ricerca italiana sia migliorata dopo anni di cura ANVUR, e nemmeno se i metodi di valutazione dell’agenzia vadano riformati in senso qualitativo ora che il movimento di opinione internazionale che ha dato vita alla Coalition for Advancing Research Assessment sembrerebbe spingere auspicabilmente in questa direzione. Forse i ricercatori italiani lavorano più che in passato, ma ciò non significa necessariamente che lavorino meglio o che lo facciano sulle cose su cui avrebbe davvero maggiormente senso impegnarsi (più sui testi, su ciò che conta, e magari meno sui dati del sistema di assicurazione della qualità, su ciò che si può contare1). Tanto meno significa che oggi essi facciano una scienza “migliore” e di maggiore rilevanza, se è vero che – in particolare per le scienze sociali – «mai prima nella storia dell’umanità così tanti hanno scritto così tanto pur avendo così poco da dire a così pochi» (Alvesson et al., 2017, 9).
- 2 «In nessun campo la libertà è più importante che in quello nel quale maggiore è la nostra ignoranza (...)
5Se la questione essenziale non è dunque “con quali effetti” né “come” si valuta, allora il tema da considerare diventa piuttosto “chi” valuta, “per quale scopo”, e sulla base di “quale idea di qualità”. Quanto alla prima questione (il “chi” valuta), è chiaro che la valutazione o è intrinseca alla ricerca o è qualcos’altro che esula dall’ambito epistemico. Se è parte della ricerca, allora perché esternalizzarla a un’agenzia paraministeriale che ha fini e funzioni istituzionali di tipo extra-scientifico, come ad esempio redigere classifiche per organizzare il quasi-mercato degli atenei e gestire il relativo sistema di incentivazione premiale? E se non può che essere esercitata fra pari mediante l’uso pubblico della ragione, allora perché praticarla in forme opache e asimmetriche che fanno pensare più alla condizione del comando amministrativo che a quella di un dibattito scientifico? Per quanto concerne, poi, lo “scopo” della valutazione, essa deve avere finalità euristiche: è dunque possibile farla per funzioni manageriali senza con ciò alterare la natura stessa del valutare e corrompere la sua ragione d’essere scientifica? E, infine, a proposito di “quale idea di qualità”, un’istituzione che fissi i paletti della qualità scientifica (quali che siano) non rischia di soffocare nella ricerca proprio quelle componenti imprevedibili di libertà, creatività e serendipità di cui essa vive e si alimenta? Forse nel campo della ricerca2 una nozione accettabile di qualità dovrebbe escludere che se ne possa dare una definizione univoca e che si possa indicare normativamente una certa procedura per perseguirla.
- 3 A suo tempo Kant (1798, [1994], 68) declinava il conflitto tra interno ed esterno dell’università n (...)
6Il conflitto tra le ragioni dell’autogoverno delle comunità accademiche e quelle del controllo ministeriale esterno (che oggi definiamo accountability) non nasce certo ai giorni nostri3. Ma nell’oscillazione tra razionalità scientifica e ragione di stato, il pendolo sembra oggi essersi spostato decisamente dalla parte di quest’ultima. L’ANVUR è parte di un dispositivo governamentale che ha ridefinito il rapporto fra università e società, trasformando il ruolo dello stato in tale relazione (Neave, 2012).
7Nel primo paragrafo discutiamo l’usurpazione semantica del concetto di valutazione precisando le differenze tra il valutare delle comunità scientifiche e quello di un’agenzia di valutazione della ricerca. Quindi, tracciamo una genealogia dell’idea di carisma accademico, che ancora oggi è moneta corrente della valutazione nella forma dell’impatto. Denunciamo, poi, il carattere deleterio e autoritario di ogni definizione normativa di qualità calata dall’alto sulla comunità scientifica. Infine, traiamo le conseguenze dell’analisi, proponendo un cambiamento di paradigma che disinfiammi l’esasperazione competitiva della ricerca rimuovendo le componenti premiali del finanziamento universitario, restituisca la valutazione a finalità eminentemente euristiche e sancisca il carattere di bene comune della conoscenza. Va da sé che lo smantellamento della tecnostruttura ANVUR sarebbe il primo passo per rendere possibile tutto ciò.
8Su ANVUR va fatta una preliminare operazione di ecologia semantica. Qualunque cosa faccia questa agenzia di nomina ministeriale sotto la denominazione di “valutazione della ricerca”, ha poco a che fare con le pratiche di riflessività utilizzate dalla comunità scientifica per giudicare i contributi degli studiosi, alimentare il dibattito tra ricercatori e promuovere lo sviluppo del sapere. Quando si sostiene che non c’è ragione di contestare ANVUR perché la valutazione è parte dell’impresa scientifica, si ricorre a un argomento piuttosto capzioso e fuorviante. Si utilizza un termine, “valutazione”, che suona pacifico perché ben familiare agli studiosi, ma vi si introducono larvatamente nuovi usi, imprimendogli una surrettizia torsione semantica che sposta il concetto dall’ambito propriamente scientifico e culturale, che vive di rapporti fra pari, a quello manageriale e governamentale, che invece è organizzato secondo rapporti gerarchici. Perciò, agenzie come ANVUR sono un «potere spacciato per sapere» (Zarka, 2009), vettori di un «principio di autorità» imposto da di fuori «secondo logiche e finalità che sono perlopiù esterne alle logiche e alle finalità della ricerca» (Illetterati, 2021).
9Supponiamo che, per eliminare ogni abuso e bias decisionale, un’agenzia di valutazione usi un sistema capace di apprendere dalle pratiche valutative che le comunità scientifiche hanno svolto nell’assumere decisioni in merito alle carriere dei ricercatori o al finanziamento di progetti di ricerca. Immaginiamo che tale sistema sia in grado di estrarre modelli decisionali di apprezzamento della qualità che rispecchino perfettamente le scelte che gli studiosi compiono in materia di ricerca scientifica. Basterebbe questo a ottenere un metodo oggettivo e affidabile da utilizzare obbligatoriamente per riconoscere la qualità dei lavori di ricerca? La questione solleva più di una perplessità.
10Innanzitutto, il passaggio dal descrittivo al prescrittivo, dall’indicativo all’imperativo, è sempre arbitrario. Ma, a prescindere dalla validità del sistema usato, ciò che resta in ogni caso inaccettabile è che esso venga adottato e imposto da un ente sovraordinato alla comunità scientifica, e che i ricercatori siano obbligati a sottoporvisi senza poter concorrere a criticarlo ed eventualmente a cambiarlo, come invece sarebbe naturale se si trattasse di un reale dibattito scientifico. Ogni sistema di governo centralizzato della qualità è strutturalmente infirmato dal fatto che – come ha notato Robert Pirsig (2022, [2024], 68) – il concetto di qualità «è al tempo stesso indefinibile e infinitamente definibile (il che è la stessa cosa). Se esso venisse compendiato, il riassunto intellettuale non sarebbe superiore al termine, perché l’antitesi del riassunto sarebbe altrettanto vera del riassunto stesso». Nel momento in cui si pretende di riassumere la qualità in una sola definizione (quale che sia), si compromette il principio della pluralità delle sue definizioni possibili. Il che è tanto più pregiudizievole per un’attività come la scienza, che necessariamente si deve misurare con gli orizzonti del non ancora noto e che proprio per questo sarebbe velleitario e inopportuno imbrigliare con definizioni normative troppo rigide e monocratiche su ciò che significa fare ricerca di qualità. Inoltre, anche se tale attività di valutazione si limitasse davvero solo a prendere atto delle scelte decise fino ad allora dalle comunità scientifiche, la sua aspirazione a rivendicare l’esclusiva sul marchio di scientificità violerebbe la libertà della scienza perché privatizzerebbe l’uso pubblico della ragione, impedendo alla comunità illimitata dei ricercatori (compresi quelli delle future generazioni) di ideare nuovi modi di condividere e giudicare la ricerca (Pievatolo, 2017).
11La valutazione scientifica praticata dai ricercatori è tutt’altra cosa rispetto a quella premiale e standardizzata di un’agenzia di valutazione centralizzata. Le ragioni di questa strutturale differenza di gioco linguistico attengono ai soggetti che esercitano la valutazione, alle finalità per la quale essa viene svolta, ai metodi con cui viene fatta, alle conseguenze che ne discendono e alla stessa ragione d’essere del valutare.
12Per quanto riguarda i soggetti che valutano, ANVUR si avvale certo di accademici, ma i ricercatori coinvolti non esercitano tale funzione nella medesima veste e allo stesso titolo di come farebbero in una pubblica discussione: mentre in una disputa scientifica il dibattito è tendenzialmente aperto e infinito senza che a nessuno sia data la facoltà di porre perentoriamente fine alla discussione, in un esercizio di Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR) l’esperto valutatore, in qualità di funzionario assoldato da ANVUR, ha proprio il compito istituzionale di emettere un giudizio di ultima istanza, onde ricavare la formula da applicare per erogare le quote di finanziamento premiale alle strutture dei valutati.
13Da ciò si capisce perché i due tipi di valutazione hanno finalità intrinsecamente diverse: mentre quella praticata dalle comunità scientifiche dovrebbe perseguire solo obiettivi di tipo cognitivo ed epistemico, quella gestita da ANVUR ha come posta in gioco costitutiva il conseguimento di un’utilità estranea alla ricerca in quanto tale, ossia l’attribuzione di fondi premiali. In essa la dimensione del petere (ossia del chiedere per ottenere) prende decisamente il sopravvento nelle motivazioni dei ricercatori fino a spazzare via quella del quaerere (il chiedere per sapere).
14Quanto alla differenza dei metodi di valutazione, il sogno di ogni Performance-based Research Funding System sarebbe una valutazione automatica basata su indicatori citazionali, che faccia a meno dei costi e dei tempi necessari alla lettura di quanto si valuta, e che produca risultati non divergenti: il che è esattamente il contrario di quanto avviene di norma nelle valutazioni che si praticano nella comunità scientifica, dove la differenza di giudizio non costituisce un bias ma un fattore che alimenta il dibattito e favorisce lo sviluppo della conoscenza.
- 4 «Lentamente ma inesorabilmente, questi massivi e invadenti esercizi di valutazione hanno reso gli s (...)
- 5 REF e VQR sono progettati essenzialmente per evitare di commettere l’errore di assegnare fondi a st (...)
15Per quel che concerne le conseguenze della valutazione, nel Regno Unito gli esercizi massivi di valutazione della ricerca (il RAE, poi REF), strutturati come la nostra VQR, avrebbero negli anni generato un effetto di «epistemic sorting» (Pardo Guerra, 2022) e di normalizzazione della scienza4. E ciò perché, come ampiamente prevedibile e previsto, la valutazione premiale della ricerca rafforza finanziariamente quelle linee di ricerca che in un certo momento danno l’impressione di essere vincenti ma fatalmente ne scoraggia altre che, al momento, non hanno ancora prodotto risultati percepibili ai radar della valutazione, ma che magari potrebbero dare buoni frutti in futuro purché adeguatamente sovvenzionate5.
16La ragione d’essere del valutare, infine, è del tutto sovvertita. Per essere efficace la valutazione deve essere sensibile ai contesti e adattarsi alle loro peculiarità. Nel momento in cui per ragioni di benchmarking legate alla distribuzione di fondi premiali si adotta una ratio valutativa all’insegna dell’one-size-fits-all, viene meno proprio ciò che dovrebbe fare della valutazione un efficace strumento di lettura di ciascuna situazione iuxta propria principia. D’altra parte, è nella logica della valutazione premiale limitarsi solo a determinare aumenti o tagli di finanziamenti agli atenei, senza allestire per essi strumenti di apprendimento organizzativo. Al contrario, la contrazione di risorse che colpisce le strutture peggio giudicate impedisce loro di fare gli investimenti necessari per ovviare alle criticità rilevate. Anche per il decisore politico – a meno che non ne abbia bisogno per inscenare un gioco delle parti post-democratico che serve a tagliare una spesa che evidentemente ritiene inutile se non pericolosa – la valutazione ANVUR si traduce in deresponsabilizzanti automatismi finanziari, che ne limitano i margini di agibilità operativa e le possibilità di programmazione. Così, la valutazione della ricerca gestita da una tecnocrazia di fatto finisce per esautorare la politica universitaria espressione di una democrazia.
- 6 Decreto Legge n. 112, 25.VI.2008 (poi legge 133, 21.VIII.2008).
17Per tutti questi motivi la valutazione amministrata da ANVUR non ha nulla a che vedere con le pratiche di valutazione che gli studiosi effettuano nelle loro attività di ricerca. Anzi, l’uso stesso del sintagma “valutazione scientifica” da parte di ANVUR è un’indebita usurpazione semantica. Per capire come sia stata resa potabile all’opinione pubblica, conviene tornare agli anni della sua gestazione, quando il governo decise un sensibile taglio del fondo di finanziamento ordinario destinato all’università e contestualmente il blocco del turnover del personale accademico6. La politica ha imposto all’università di “fare di più con meno” celando questa operazione di austerità finanziaria sotto il pretesto della lotta ai privilegi accademici e della promozione di una ricerca scientifica finalmente di qualità. L’ANVUR è stata la perfetta foglia di fico per realizzare tale strategia di depistaggio cognitivo.
18A chiusura della prima VQR, l’allora presidente ANVUR la presentava come uno strumento indispensabile per la governance del sistema universitario spiegando che «il medico non getta via la radiografia, ma la usa per conoscere il malato» (Fantoni, 2013, 16). Con tale analogia faceva eco alla narrazione con cui in quegli anni certi «pamphlet truccati» (Moretti, 2009) orchestravano premeditate campagne di panico morale sull’università italiana accusandola di essere un grande malato bisognoso di terapie d’urto, e per giunta accreditava l’ANVUR stessa come il provvidenziale imprenditore morale in grado di risanarla in virtù delle sue diagnosi soi disantes neutre e oggettive.
- 7 «La sempre maggiore compenetrazione tra governo, università e aziende private ha portato tutti gli (...)
19ANVUR è fenomeno del nostro tempo e come tale va analizzato. Il modello organizzativo a cui si ispira è il quango che nel Regno Unito gestisce il REF, la cornice politico-amministrativa in cui ha preso forma è il New Public Management, e l’antropologia culturale da cui trae legittimazione è quella neoliberale della «demoltiplicazione della forma impresa» (Foucault, 2004, [2005], 131) in ogni spazio e ad ogni livello della vita sociale, fino a diventare matrice di soggettivazione. Autonomia responsabile, valutazione standardizzata delle performance e finanziamento premiale sono tra le parole-chiave che definiscono l’università contemporanea «malata di management» (de Gaulejac, 2012). Il tutto in base a una «“ontologia imprenditoriale” per la quale è semplicemente ovvio che tutto, dalla salute all’educazione, andrebbe gestito come un’azienda» (Fisher, 2009, 51). In realtà, lo stesso Mark Fisher ha parlato opportunamente di «stalinismo di mercato» per descrivere l’impostazione dirigistica e autoritaria che si è voluto dare al governo dell’università attraverso lo strumento della valutazione centralizzata, malgrado una cornice ideologica che enfatizza la competizione di mercato fra strutture (dipartimenti e atenei) per intercettare finanziamenti premiali, e immatricolazioni studentesche7.
20Ma ANVUR è anche frutto di una storia che viene da lontano (cronologicamente e geograficamente), e di tale passato esibisce una path-dependency assiologica e ordinamentale. Sarebbe alquanto riduttivo considerare l’ANVUR come una faccenda legata solo al presente. Si spiega meglio la sua autoevidente “inevitabilità” se si esce da una visione destoricizzata e se ne riconduce la genealogia culturale alle origini della stessa università moderna, quando si avviarono i primi processi di burocratizzazione (per via ministeriale e di mercato) delle tradizionali figure accademiche, accusate di godere di eccessiva autonomia e sospettate, allora come ora, di essere corrotte e improduttive.
21Considerata in una prospettiva di lunga durata, la polemica su ANVUR ripropone mutatis mutandis l’intrinseca tensione strutturale che nel tempo ha visto sistematicamente contrapposte le ragioni del sapere alle istanze del potere, le priorità scientifiche alle finalità politico-economiche. Contrapposizione che ha sempre avuto come posta in gioco essenzialmente la determinazione di chi valuta, con quale scopo e sulla base di quale idea di qualità. Lo storico William Clark ha individuato il momento fondante di tale conflitto nell’università di ricerca che ha preso forma nella Prussia tra il XVIII e il XIX secolo. Anche allora la priorità era razionalizzare il modello tradizionale di università rimasto pressoché immutato dal Medioevo, allo scopo di scardinarne i privilegi laddove massimamente si annidavano, ossia nella relativa discrezionalità concessa alle comunità accademiche di cooptare i propri membri. Fra le misure adottate, anche un provvedimento con cui nel 1749 fu varato un rudimentale sistema publish or perish ante litteram (Clark, 2006, 254). Con esso si stabilì per la prima volta il principio in virtù del quale, per diventare professore universitario, si dovesse dar prova ai competenti organi ministeriali di particolare originalità e prolificità. Si andava così affermando un’inedita, per l’epoca, forma di capitale simbolico, destinata ad avere grande successo nella storia dell’università moderna, ossia «un nuovo tipo di carisma accademico legato alla pubblicazione in grado di ricevere “applausi” e “riconoscimenti”» (ivi, 4). Per usare gli idealtipi weberiani, l’ordinamento «razionale» che si voleva imporre all’università in sostituzione di quello «tradizionale» finiva inevitabilmente per contaminarsi di tratti «carismatici» legati al prestigio e alla fama della personalità accademica. Così, la riforma dell’istituzione universitaria, che doveva metterla al passo con i processi di razionalizzazione e disincanto dell’epoca moderna, lasciava in realtà spazio all’emergere di nuove forme secolarizzate di «carisma accademico», di cui ancora oggi troviamo traccia in protocolli valutativi intessuti di residui semantici “premoderni” ai limiti dell’animistico e del pensiero magico, come ad esempio i concetti di “originalità”, “eccellenza” e “prestigio” riferiti rispettivamente ai ricercatori, alle strutture di ricerca e alle sedi di pubblicazione. Un modello razionale di accertamento della qualità degli accademici, alternativo a quello carismatico dell’«homo academicus germanicus protestantus», è individuato da Clark nel rilievo dato all’epoca dai Gesuiti all’«esame», anziché alla «fama». In questo senso, potremmo dire che, prima della presunta razionalizzazione dell’ASN, il sistema di reclutamento italiano (giusto o deprecabile che fosse) era tecnicamente più vicino all’idealtipo razionale in quanto prevedeva in diverse prove d’esame la verifica della capacità dei candidati di produrre elaborati scritti (si pensi al vecchio concorso per ricercatore) e di tenere una lezione (come nel vecchio concorso per professore associato), ossia delle effettive competenze richieste a un accademico per svolgere la sua attività. Per l’esattezza, il vecchio sistema di reclutamento era un mix dei tre idealtipi, quello tradizionale (dato il ruolo riconosciuto alle comunità scientifiche nell’elezione delle commissioni), quello carismatico (la valutazione del curriculum e delle pubblicazioni) e, appunto, quello razionale (le prove d’esame).
22Per contro, c’è qualcosa di profondamente irrazionale (in termini di adeguatezza dei mezzi di un’azione agli scopi che si prefigge) nel pensare di poter dedurre la qualità di un contenuto scientifico dal presunto valore del relativo contenitore editoriale. È una valutazione che potremmo definire “metonimica”: funziona sulla base di un trasferimento semantico fondato sulla contiguità materiale fra il termine letterale (il contenitore che ospita un articolo) e quello traslato (il contenuto dell’articolo). Quando qualcuno ci invita a «bere un bicchiere d’acqua», siamo ben consapevoli del fatto che si riferisce all’atto di ingerire un liquido, e non ci potrebbe mai venire in mente che ci stia intimando di tracannare il vetro che lo contiene. Capiamo tutti che il nostro interlocutore sta adoperando una figura retorica. Curiosamente, smarriamo tale consapevolezza ogni volta che consideriamo il rating di una rivista (che ANVUR ha bollinato di fascia A) per decidere metonimicamente della qualità di un articolo che vi è pubblicato. In questo caso l’uso traslato non è percepito e ci comportiamo come fossimo di fronte a un’espressione da interpretare in senso letterale.
23Perché sia un’azione razionale rispetto allo scopo, la valutazione di un testo necessita che esso sia letto, il che ovviamente non può avvenire che in un momento successivo alla sua pubblicazione. Al contrario, la regola che impone di valutare un articolo attraverso la bibliometria anticipa il momento della determinazione della sua qualità a una fase precedente a quella in cui è reso pubblicamente disponibile alla lettura per essere giudicato. Il rating della sede in cui si pubblica un articolo finisce per diventare di per sé un elemento di valutazione dello stesso. Così, la lettura tende sempre più ad essere considerata superflua nel determinare l’apprezzamento della qualità dell’articolo, fino a diventare una pratica “antiquata”. Gli accademici possono ancora continuare a leggersi tra di loro per acquisire conoscenze ma, quando sono commissari di concorso, leggere le pubblicazioni dei candidati non solo non serve, diventa addirittura sospetto. Il giudizio che gli studiosi di una disciplina pronunciano su un candidato dopo averne letto i lavori è avvertito come tendenzialmente arbitrario e in odore di bias o di favoritismi personali. Il rischio è che il superamento di determinate soglie bibliometriche o il possesso di certi requisiti relativi ai titoli scientifici, ossia di ciò che si può contare anche da parte dei non addetti ai lavori cominci a contare prioritariamente nell’agenda degli addetti ai lavori. Da pratica intrinseca alla ricerca l’atto di valutare si trasforma in un resoconto estrinseco da esibire all’esterno, da attività interpretativa che si esercita su documenti testuali da parte di lettori competenti si converte in ricognizione di metadati citazionali gestiti da aziende proprietarie che operano a fini di lucro.
24La lettura, la sola pratica “razionale” per giudicare le pubblicazioni, viene di fatto resa inessenziale paradossalmente dall’istituzione preposta a promuovere la qualità della ricerca scientifica. Se di tutto questo oggi si fa fatica a percepire l’intrinseco controsenso è perché nella valutazione universitaria l’elemento della razionalità è passato in secondo piano rispetto a quello “carismatico” dell’impatto. Attraverso l’impatto che avrà nel tempo (il numero delle citazioni che otterrà), un articolo trasferisce il suo valore scientifico alla rivista, ma di fatto al momento in cui avviene la valutazione dell’articolo sulla base del ranking delle riviste è la rivista che ha trasferito il suo valore bibliometrico, ovvero il suo fattore d’impatto, all’articolo: «una pubblicazione nasce già valutata, il che fa sembrare il fattore d’impatto delle riviste come uno strano titolo aristocratico ereditato alla nascita (basato sul nome della rivista dove è nata la pubblicazione) piuttosto che guadagnata “meritocraticamente” durante la vita della pubblicazione» (Biagioli, 2018, 10). Il fatto poi, come si sostiene, che il ricorso a tali strumenti di valutazione dovrebbe contrastare le rendite di posizione dei baroni e premiare il merito è solo uno dei tanti paradossi di tutta questa vicenda.
25La trasformazione degli articoli scientifici da «unità di conoscenza» a «unità di conto» (Gingras, 2020, 44) per amministrare le carriere dei ricercatori e il finanziamento universitario, conferma in modo lampante la scissione tra la ratio di una valutazione euristica interna al dibattito scientifico e finalizzata a sviluppare la conoscenza, e quella di un sistema di calcolo bibliometrico che serve essenzialmente a governare le condotte degli scienziati e a consentirne il controllo dall’esterno.
26Le istanze di controllo sull’università, esercitate storicamente da parte di attori esterni come il «ministero» e il «mercato» (Clark, 2006) – oggi diremmo della burocrazia statale e del capitalismo manageriale – hanno fatto sì che il modello prussiano di università elaborasse un tipo di valutazione della ricerca programmato soprattutto per privilegiare la verifica del “carisma” degli accademici, associato al fattore d’impatto (comunque operazionalizzato) delle relative pubblicazioni. Da qui l’enfasi sulla valutazione metonimica di cui ancora oggi soffriamo e che ci rende così sensibili alla dimensione bibliometrica dei contributi accademici. Eppure, non è mica da questi particolari che si giudica un ricercatore, per parafrasare una canzone d’autore. Un ricercatore lo si vede piuttosto dal «coraggio» (per esempio, di abbattere i limiti del conformismo), dall’«altruismo» (perché la scienza è un’impresa cooperativa più che competitiva, essendo la conoscenza un bene non rivale), dalla «fantasia», cioè da quell’unica virtù epistemica che è in grado di produrre una box-breaking research, anziché una boxed-in research (Alvesson, Sanberg, 2014) che serve solo a mettersi in regola con gli indicatori e le soglie stabilite da enti come ANVUR.
27Una volta la posta in gioco della ricerca era l’approssimazione alla “verità” delle proposizioni scientifiche; oggi nella valutazione della ricerca è diventata la “qualità” così come definita da un’agenzia paraministeriale. I ricercatori sono indotti, e sembrano per lo più rassegnati, a parlare ormai quasi solo il linguaggio burocratico-manageriale della qualità, formalizzato in specifici rituali di verifica, punti di attenzione, target di risultati, strategie di miglioramento continuo e criteri di classificazione e gerarchizzazione. E si sa che il linguaggio con cui si parla determina in qualche modo l’orizzonte del dicibile e perfino del pensabile.
28Mentre la verità scientifica si predica di un enunciato che si riferisce al mondo attraverso un’osservazione di primo livello, la qualità definita da ANVUR concerne un’osservazione di secondo livello che non entra nel merito della questione, perché si limita solo a osservare come gli osservatori giudicano quell’enunciato. L’accertamento della verità riguarda il rapporto tra explanans ed explanandum, ossia la corrispondenza tra il discorso di chi osserva e la realtà osservata. Invece, la valutazione della qualità è essenzialmente questione di discorsi che si riferiscono a discorsi altrui, di giudizi che si emettono monitorando giudizi altrui, senza alcun rapporto con il mondo. Il processo di verifica in the long run della fondatezza di una teoria scientifica, ammesso che sia possibile una volta per tutte, non è compatibile con le scadenze e gli obiettivi manageriali che ha un’agenzia di valutazione di stato, la quale delle pubblicazioni in cui quella teoria è formulata viene chiamata semplicemente a stabilire il corrispettivo valore premiale entro il circoscritto periodo di una VQR. Si tratta di due giochi linguistici, quello della verità e quello della qualità, del tutto differenti e intransitivi. Al punto da giustificare fondate perplessità circa l’idea che migliorare questa porti automaticamente a promuovere quella.
29La qualità di cui parlano i professionisti della valutazione è tutto ciò che pare essere rimasto dopo la dissoluzione tragica della verità degli scienziati. Il che, detto per inciso, conferma l’idea hegeliana per cui nella storia tutto si presenta due volte, ma per Marx la prima come tragedia e la seconda come farsa. In effetti, per com’è concepita da ANVUR, la qualità è diventata il surrogato farsesco e autoreferenziale sul piano valutativo di quello che sul piano epistemologico è l’ideale della verità come orizzonte regolativo dell’impresa scientifica. La qualità, cioè, non è altro che ciò in cui si degrada la verità nel momento in cui passa dalle mani di uno studioso a quelle di un addetto alla gestione contabile degli studiosi. Il fatto che la pretesa di verità appaia un concetto epistemologicamente problematico nella pratica della scienza non pone alcun problema a coloro che oggi continuano a nutrire la pretesa di qualità nella valutazione della scienza. Al controverso concetto di verità, essi non trovano di meglio che sostituire un concetto ancora più discutibile e inconsistente come quello di qualità, per farne l’arbitro non di dispute scientifiche ma di ambizioni economiche e rivalità di potere accademiche. Per quanto ne costituisca solo uno sbiadito sottoprodotto burocratico, la qualità targata ANVUR mantiene tuttavia un tratto comune con la verità in quanto istanza di regolazione del sapere. La posta in gioco dell’una come dell’altra è la riduzione coatta del pluralismo cognitivo e culturale, la «conquista dell’abbondanza» (Feyerabend, 1999, [2002]), ovvero l’individuazione rispettivamente della struttura di ricerca più meritevole di finanziamento da parte dell’autorità ministeriale e della sola teoria scientifica degna di essere riconosciuta come vera dalla comunità dei ricercatori. Qualità e verità sono entrambe risorse scarse, credenziali riservate a pochi, elementi di un gioco a somma zero in forza del quale si giustifica la messa al bando di chi non ne viene riconosciuto all’altezza, in definitiva fattori di coazione all’unanimità. Ma «l’unanimità di opinione può essere adatta per una chiesa, […] e per i seguaci deboli e pronti di qualche tiranno. Per una conoscenza obiettiva è necessaria la varietà di opinione. E un metodo che incoraggi la varietà è anche l’unico metodo che sia compatibile con una visione umanitaria» (Feyerabend, 1975, [2002], 39, corsivo dell’autore).
30In una prospettiva autenticamente pluralistica anche le valutazioni ANVUR potrebbero, al limite, avere diritto di cittadinanza nell’ecosistema della conoscenza purché non diventino l’arma brandita per negare lo stesso diritto ad altri soggetti e ad altre forme di giudizio del lavoro di ricerca. In assenza di un accesso privilegiato di primo livello alla verità delle cose, non ci sarebbe niente di male, da parte di chi lo desidera e senza pretendere di imporlo normativamente agli altri, nel tener conto fra l’altro anche delle percezioni soggettive di secondo livello elaborate per redigere ranking di qualità o rating di riviste. Il problema è che il pluralismo epistemologico, all’interno del quale si è ritagliata uno spazio perfino la forma di apprezzamento del lavoro scientifico gestita da ANVUR per conto dello stato, viene ad essere immediatamente compromesso se si riconosce ad essa soltanto la possibilità di dare le carte e dettare le regole. A quel punto il pluralismo si arresta e al suo posto subentra un soffocante sistema di ortopedia cognitiva con il quale si pretende di regolare l’intero universo delle pratiche scientifiche.
31Com’è noto, la ricerca attraversa fasi di scienza normale che si avvicendano fisiologicamente a momenti di scienza rivoluzionaria. Meno comprensibile è che ora si pretenda di irrigidirla in scienza normalizzata per ragioni estrinseche al dibattito scientifico e con la conseguenza di rendere sempre più impraticabile l’elaborazione di nuovi modelli e strategie euristiche. Come ha scritto John Stuart Mill (1859, [1999], 85), allestire un sistema di governo del sapere che ostacola l’espressione di un’opinione, per quanto eterodossa appaia, rappresenta un vero e proprio «crimine» perché «deruba la specie umana […] tanto i posteri come la generazione attuale, […] chi dissente da quell’opinione ancor più di coloro che la condividono. Se l’opinione è giusta, li si priva dell’occasione di scambiare l’errore con la verità; se è sbagliata, perdono un beneficio quasi altrettanto grande, e cioè quella percezione più chiara, quell’impronta più viva della verità, che abbiamo quando ci si scontra con l’errore».
32Ma se la qualità è solo un flatus vocis, il prodotto fabbricato da una tecnologia di potere per plasmare la soggettività degli accademici disciplinandone gli schemi di pensiero e governandone le condotte su base competitiva, ciò significa che dobbiamo abbandonare ogni tensione a lavorare bene e rassegnarci a un’università e a una ricerca scientifica senza qualità? Siamo convinti del contrario. La qualità è un orizzonte asintotico, una nozione refrattaria all’idea che se ne possa dare una definizione univoca e indicare una via unica per perseguirla. Ogni definizione di qualità che non parta dal riconoscimento della sua parzialità e contingenza reca con sé intrinsecamente il rischio della violenza epistemica. Esattamente come per la verità secondo Feyerabend (1985, [2012], 92): «la violenza salta fuori non quando sento qualcuno dire di essere alla ricerca della verità, ma quando sento dire che siamo, o dobbiamo essere, al plurale alla ricerca della verità. Allora mi insospettisco, che cos’è che vuole questo tizio? Se poi vedo che comincia a far proseliti, a combattere chi non sta dalla sua parte».
33Se la sola cosa che hai è un martello, alla fine il mondo ti sembrerà un chiodo – recita un vecchio adagio variamente attribuito. Così, se gli strumenti con cui si valuta il sistema universitario sono essenzialmente calcoli citazionali, soglie bibliometriche, classificazioni delle riviste e (ammesso che significhi qualcosa) indicatori standardizzati di performance dipartimentale (De Nicolao, 2022), alla fine il miglioramento della ricerca scientifica finirà per sembrare solo una questione di quantità di pubblicazioni e di numero di relative citazioni. E quando le une e le altre inevitabilmente risulteranno aumentate si avrà buon gioco a sentenziare che questo tipo di valutazione avrà migliorato la ricerca. In realtà, non sarà la ricerca in sé ad essere migliorata, o comunque non è di questo che si tratta e non sono le evidenze tratte da questo genere di indicatori a poterlo suffragare. Sono, invece, i ricercatori che si saranno giocoforza dati da fare per adattarsi alle nuove regole del gioco e al tipo di verifiche e misurazioni della qualità che esse comportano, onde massimizzare le proprie prestazioni rispetto ai parametri valutativi.
34Se a un’agenzia di valutazione si conferisce il potere di stabilire in regime di monopolio le regole del gioco scientifico e di definire che cosa significa migliorare in esso, essa imporrà come obiettivo generale di qualità dell’intero sistema questo specifico tipo di “miglioramento”, e di conseguenza quanti operano in quel campo di gioco si sforzeranno di “migliorare” le proprie performance attingendo all’intero repertorio della gamesmanship accademica (Macdonald, Kam, 2007), ad esempio incrementando l’autoreferenzialità citazionale, che è proprio ciò che pare sia accaduto e che spiegherebbe il presunto recente miracolo della ricerca italiana (Baccini et al., 2019).
35Secondo la cosiddetta legge di Goodhart, quando una misura utilizzata per rilevare l’andamento di un certo processo diventa l’obiettivo strategico per chi vi è coinvolto essa smette ipso facto di essere una buona misura, anzi sovente innesca comportamenti opportunistici che, pur adeguandosi esteriormente agli standard previsti, di fatto rischiano di generare effetti di lunga durata indesiderati, se non addirittura perversi e aberranti.
36Per illustrare come questo sia proprio il caso del sistema di valutazione della ricerca gestito da ANVUR, il compianto Nuccio Ordine (2018) ha rievocato un fenomeno noto come effetto cobra: se si offre una ricompensa a chi dimostra di aver ucciso un cobra, presto la gente si trasformerà in allevatori di cobra, il che, anziché decimarli, ne provocherà l’esiziale proliferazione. Così, ANVUR, anziché incoraggiare coloro che si dedicano seriamente alla ricerca, finisce per «foggiare professionisti di curricula, costretti (non per colpa loro) a dedicare preziose energie all’alchimia delle “soglie”», e dunque per «asservire la ricerca alla quantità e ai numeri, favorendo i ragionieri delle mediane e non gli studiosi che scrivono libri».
37Sono proprio considerazioni come queste che fanno pensare che, prima ancora che come strumenti per misurare il valore della ricerca accademica, le «audit cultures» (Strathern, 2000) funzionino come dispositivi che servono a imporre surrettiziamente pratiche e valori post-accademici all’interno del campo scientifico (Ziman, 2000, [2002]), modificandone le priorità e i modelli di produzione della conoscenza, e piegandolo a interessi e finalità incompatibili con il tradizionale frame normativo della scienza codificato da Merton (1942, [2000]).
38In tale scenario in che cosa potrebbe consistere allora una condivisibile idea di “miglioramento dell’università”? Per capire se ANVUR ha migliorato l’università italiana, piuttosto che considerare i risultati della ricerca (gli output), conviene esaminare le condizioni che sono indispensabili per fare una ricerca di qualità, ossia riflettere innanzitutto sugli elementi di input. La condizione più importante si riferisce a una dimensione interna al mondo professionale dei ricercatori, ossia la libertà accademica: si è tanto più in grado di fare ricerca innovativa quanto più si è liberi da condizionamenti esterni e si risponde a una motivazione intrinseca curiosity-driven. La valutazione di Stato ridefinisce la natura della scienza come professione, limitandone l’autonomia e perciò trasformandola tendenzialmente in un’occupazione amministrata all’interno di un’organizzazione burocratica. A differenza dei servizi lavorativi che si prestano in condizioni di «mercato» o sotto la gestione di una «burocrazia», controllati rispettivamente dalla domanda dei consumatori e dal comando dei manager, l’idealtipo del «professionalismo» rappresenta una «terza logica» di lavoro, in cui «né singoli acquirenti di forza-lavoro né manager di aziende burocratizzate hanno il diritto di scegliere i lavoratori destinati a svolgere determinate funzioni o di valutarne il lavoro, se non entro i limiti specificati dalla professione stessa» (Freidson, 2001, [2002], 40). In altre parole, un’occupazione si può a buon diritto definire «professione» quando è essa stessa che «crea le condizioni grazie alle quali i suoi membri sono liberi dal controllo di chi li assume» (ibidem). Il particolare status di autonomia di cui gode il professionalismo non va inteso come un trattamento di favore riservato inopinatamente a un’élite di privilegiati, benché nel sistema accademico italiano essa abbia favorito anche fenomeni di azzardo morale e abuso di potere (Clark, 1977). Al contrario, accordare discrezionalità al professionista della scienza significa soprattutto assicurare le condizioni ottimali per svolgere un’attività particolare come la ricerca, i cui esiti sono per definizione indeterminati e indeterminabili. C’è un solo modo per evitare un sapere di stato, ed è quello di garantire (come prevede la Costituzione) una scienza libera. Una scienza, cioè, che sia valutata da scienziati e non da agenzie ministeriali, per finalità euristiche e non amministrative, e secondo una idea di qualità più complessa, multidimensionale e di maggiore respiro rispetto alla portata delle istanze manageriali, proprietarie o burocratiche.
39Migliorare la ricerca potrebbe, weberianamente, significare decontaminarla il più possibile dall’elemento del “carisma” accademico per riorientarla verso una maggiore “razionalità rispetto allo scopo”. Ciò vuol dire privilegiare le politiche di cooperazione tra chi fa ricerca su quelle fondate sulla competizione a somma zero. In questa prospettiva sarebbe opportuno liberare la valutazione da funzioni premiali perché torni a essere esercitata come pratica euristica interna alla comunità scientifica. O ancora garantire l’autonomia dell’università tenendola lontana da sistemi di incentivazione che la espongono a condizionamenti estranei alla logica disinteressata della ricerca. O magari impegnarsi affinché la conoscenza prodotta da strutture finanziate con fondi pubblici sia gestita come un bene comune al di fuori delle restrizioni d’accesso imposte dal mercato. Ne pare convinta Pilar Paneque, la direttrice di Aneca (l’equivalente spagnolo di ANVUR): «la comunità è stufa di un sistema che privilegia – anzi pretende – la pubblicazione di articoli sopra ogni altra cosa, e che lo fa con finanziamenti pubblici ma lasciando profitti privati […] La discussione sta nel decidere se la scienza […] debba essere una scienza innovativa e rivoluzionaria, il tipo di scienza di cui la società ha bisogno, oppure semplicemente un accumulo di pubblicazioni che il sistema richiede per legittimare progressioni di carriera, che alla fine è quello che è diventata per la maggior parte degli accademici» (Sánchez Caballero, 2023).
40Su tutto questo ANVUR lascia a desiderare, e sarebbe ora di trarne le conseguenze. Errare è umano ma anche istruttivo. Pentirsi è divino e segno di onestà intellettuale. Perdurare sarebbe diabolico e sospettabile delle peggiori intenzioni.