Dare forma alla sostanza
Testo integrale
1È stato chiesto un mio contributo a questo numero monografico dedicato alla riflessione sulla valutazione della ricerca in virtù – io credo – di una duplice esperienza: di studioso della storia dell’Università, con attenzione particolare al moderno concetto di Università, a partire dal pensiero di Humboldt e Schleiermacher; ma anche di Rettore alla guida di un’università statale prima, in principio degli anni Novanta, quando la discussione sulla valutazione era appena agli albori, e di Rettore alla guida di un’università non statale poi, nel pieno di questo processo. Aggiungo la consuetudine con i temi legati alla ricerca scientifica e alla sua valutazione che derivano dal mio ruolo di Vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dall’esperienza maturata negli anni in cui sono stato Vicepresidente della Conferenza dei Rettori delle Università italiane (CRUI).
2Non c’è dubbio che l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR) abbia avuto un ruolo di formante: ha spinto ricercatori e professori a pubblicare in riviste prestigiose e a partecipare a progetti di ricerca internazionali, migliorando così il profilo scientifico complessivo delle nostre università e, di conseguenza, del sistema-Paese; ha ridotto considerevolmente le sacche di ricercatori inattivi o silenti; ha migliorato la gestione interna degli Atenei, inducendo a mettere a sistema pratiche e processi che spesso erano già virtuosi ma non erano riconosciuti o valorizzati come tali; ha incentivato la mobilità di studenti e docenti, promuovendo scambi e collaborazioni con istituzioni estere e contribuendo così a creare un ambiente accademico più dinamico e aperto alle influenze internazionali; ha portato a un aumento delle attività di trasferimento tecnologico e delle opportunità di sviluppo professionale per gli studenti.
3Tuttavia, come tutti i processi formali, ossia basati su norme, procedure, soglie prefissate, il rischio è però che la forma nel tempo prevalga o addirittura si sostituisca alla sostanza; e che il ruolo di formante si risolva, nei suoi esiti concreti, in un deformante. Il processo di valutazione così come è stato strutturato ha infatti accelerato la deriva neoliberalista dell’Università, cioè subordinata alle logiche del mondo della produzione, e anche per questo poco portata a mantenere il ruolo di coscienza critica della contemporaneità. Difficilmente, del resto, può rimanere alle università tempo per coltivare e trasmettere spirito critico se i suoi attori sono stritolati da una parte dall’ipertrofia burocratica (la costrizione a parlare e scrivere continuamente di “assicurazione della qualità” in documenti, organi, gruppi e sottogruppi, al posto di fare qualità, ad esempio dedicandosi alla migliore formazione di studenti e allievi), e dall’altra da una sindrome da competizione che affligge e contrappone tra loro sia le università, per assicurarsi finanziamenti pubblici e privati, sia i docenti stessi, per accumulare pubblicazioni a fini di carriera piuttosto che di conoscenza.
4Ma l’Università, la vera Universitas, è il centro di una comunità di studenti e di docenti alla ricerca, attraverso il lavoro condiviso, di un sapere capace di offrire accesso alla verità sulla realtà tutta, di proteggere dai particolarismi, dall’ideologia dello scontro, costruendo invece e consolidando tutto ciò che è civiltà. In una parola: non di accumulazione di titoli, ma di costruzione del pensiero critico, vero patrimonio e portato della nostra civiltà. In Giardini, Robert Pogue Harrison, professore di Letteratura a Stanford, ha riproposto con forza l’immagine platonica dei maestri come «giardinieri dell’anima», definendo l’università ‒ con una bellissima metafora ‒ «il giardino più prezioso del mondo», poiché in questo giardino «sbocciano la conoscenza più che l’informazione, la memoria più che la mnemonica, l’impegno più che il conformismo». Dall’Accademia di Platone alle università moderne infatti, ci ricorda Harrison, «una cosa non è cambiata: favorire, in tempo reale e in uno spazio fisico, un’opportunità di dialogo, di rapporto interpersonale e di condivisione di un impegno, lo scambio di idee tra la comunità dei discenti» e il flusso ininterrotto, tra maestro e allievo, di «amore per la sapienza». Si tratta, come appare del tutto evidente, di processi che richiedono tempo, dedizione, attenzione alla qualità vera – quella costruita attraverso il quotidiano e diuturno rapporto tra maestro e allievo – e non alla qualità simulata, frutto della capacità adattiva al sistema burocratico, che imprigiona in innumerevoli riunioni, call conference, verbali e rapporti di auto-valutazione sempre più ravvicinati e fondati su processi, numeri, statistiche.
5Molti dei problemi attuali del mondo dell’università e della ricerca scientifica sono infatti rintracciabili nella visione “quantitativa” che si è venuta affermando negli ultimi decenni. Questa visione, nel collegarsi alla cosiddetta deriva neoliberalista, nasce altresì dal bisogno dello stesso mondo universitario di accreditarsi, o riaccreditarsi, “numeri alla mano”, rispetto a una società che maturava crescente sfiducia verso la presunta autoreferenzialità di un mondo “baronale” spesso vissuto come “casta”. Ma il semplice trasferimento di logiche, senza riguardo per la specificità dei comparti, è spesso cattivo consigliere. È così avvenuto che la trasformazione del concetto di qualità, che è ovviamente l’obiettivo proprio dell’Università, in valutazioni meramente quantitative, ha prodotto un mondo di “forme” che molto spesso non riescono a corrispondere a una sostanza, o a farlo in una forma annacquata che mette in crisi il concetto stesso di qualità sostanziale. Se il corpo ricercatore e docente vive nell’assillo di soddisfare un sistema arzigogolato di mediane, indici, parametri, quantificazione dei “prodotti”; se un giovane studioso che lavorando da numerosi anni a una ricerca, nell’osservare che, quando la sua fatica fosse finita corrisponderebbe a un solo “prodotto”, tra l’altro non pubblicabile per mole in una delle riviste di classe A (un sistema di burocratizzazione tutto italiano che i colleghi stranieri faticano a comprendere e, non di rado, commentano con spregiativa incredulità), si chiede se non valga la pena di “spacchettare” il libro in più articoli, con il rischio di ripetersi e perdere il senso dell’insieme ma guadagnando punti ai fini delle mediane concorsuali: se tutto questo capita, vuol dire che qualcosa di improprio e forse malato caratterizza oggi il mondo della vita accademica. A risentirne mi pare siano non solo la qualità della ricerca ma anche la qualità della didattica, e quindi quel servizio che l’Università è chiamata a offrire alla società, alle giovani generazioni, alle loro famiglie.
6L’Abilitazione Scientifica Nazionale, che era nata sulla base di premesse in larga misura condivisibili (ossia creare un sistema nazionale di selezione del personale docente nell’università fondato su requisiti il più possibile oggettivi, che ponesse così un argine alla forte discrezionalità manifestata in molti concorsi locali, soprattutto in alcuni settori disciplinari), ha avuto pertanto conseguenze distorsive sia nel modo di fare ricerca scientifica, come appena evidenziato (la frammentazione estrema, con la tecnica nota come salami slicing), sia nel processo stesso di valutazione. Non di rado infatti le Commissioni nazionali – tutte costituite da professori ordinari del settore disciplinare specifico – sono state sconfessate da Tribunali amministrativi regionali o dal Consiglio di Stato perché avevano ritenuto condizione non sufficiente il raggiungimento meramente quantitativo di mediane o di valori-soglia, se non accompagnato dalla qualità della produzione scientifica. Questo ha di fatto operato un condizionamento delle Commissioni stesse, le quali si vedono raccomandare dal Ministero e dai Responsabili amministrativi dei procedimenti concorsuali un’attenzione estrema, dettagliata, analitica, nel motivare il diniego dell’abilitazione a candidati che risultino in possesso di tutte le soglie quantitative. Ma forse è ancor peggiore il caso opposto e speculare: ossia di candidati che abbiano contribuito con lavori importanti e impegnativi al progresso delle conoscenze scientifiche del settore nel quale operano e che non possono neppure accedere alla valutazione perché hanno dedicato il loro tempo a queste ricerche corpose e unitarie, non preoccupandosi di aderire al mantra ossessivo del publish purchessia or perish.
7Credo pertanto che l’esigenza di normalizzazione perseguita dal sistema di valutazione vigente, che pure ha avuto dei meriti, debba essere non soltanto rivisto – il dibattito europeo sul ritorno a valutazioni prevalentemente qualitative va seguito e supportato – ma anche integrato col pieno riconoscimento del “caso di eccezione”. Come in ogni ambito della vita, anche nel mondo dell’università e della ricerca si incontrano infatti situazioni che sfuggono alla norma: i casi di eccezione, appunto. Nella storia della ricerca scientifica, sono stati i casi di eccezione a portare alle scoperte più significative, alla formulazione di nuove ipotesi e paradigmi innovativi. Riconoscere il caso di eccezione non significa abbandonare le regole, ma piuttosto applicarle con la guicciardiniana discrezione, a beneficio del sistema e della comunità.
Per citare questo articolo
Notizia bibliografica
Lucio d’Alessandro, «Dare forma alla sostanza», Quaderni di Sociologia, 95 - LXVIII | 2024, 183-186.
Notizia bibliografica digitale
Lucio d’Alessandro, «Dare forma alla sostanza», Quaderni di Sociologia [Online], 95 - LXVIII | 2024, online dal 01 mars 2025, consultato il 21 mai 2025. URL: http://journals.openedition.org/qds/7125; DOI: https://doi.org/10.4000/13k0l
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