Gli intellettuali e la « nuova Italia » : dal nazionalismo al fascismo
Résumés
Le mythe d’une « nouvelle Italie », d’origine « risorgimentale », est réélaboré par des hommes de lettres, des journalistes, des professeurs d’université et des hommes politiques, au moment de la défaite d’Adua, en 1896. À partir de ce tournant, se développe la polémique à caractère antiparlementaire, qui s’avère être une critique de l’institution parlementaire tout court : le « discorso del bivacco » de Mussolini, qui venait d’être intronisé président du Conseil, prononcé devant une Chambre stupéfaite et passive, en représente en réalité l’issue, sur la longue durée. La crainte de la masse s’identifie par ailleurs à la haine envers ses organisations politiques et économiques : antisocialisme et antidémocratie finissent par s’emparer de l’espace occupé précédemment par le « socialisme des professeurs », et à la « marche vers le peuple » se substitue peu à peu une orientation favorable à la bourgeoisie, de tendance nationaliste et impérialiste. L’hégémonie du groupe dirigeant socialiste est remplacée par celle du petit groupe d’intellectuels mené par Enrico Corradini, un homme de lettres qui a découvert à Adua sa vocation politique. Ce passage de la littérature à la politique advient sous le signe d’un nouveau protagonisme des « clercs », qui se manifeste en premier lieu à travers des revues culturelles, en particulier florentines (de Il Marzocco à La Voce). Les germes nationalistes, antidémocratiques et antisocialistes écloront avec la guerre de Libye, et surtout avec la Grande Guerre, que les intellectuels contribueront de façon décisive à préparer du point de vue culturel et idéologique. L’après-guerre recueillera les fruits venimeux de cette haine, en la transformant en violence physique contre les partisans de la neutralité, les pacifistes, qui deviendront alors les « lâches », les « défaitistes ». Le fascisme est désormais aux portes, et les intellectuels, avant même de contribuer à son renforcement durant le régime mussolinien, en préparent l’avènement.
Texte intégral
- 1 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, p. 13.
- 2 M. Morasso, « Ai nati dopo il ’70. La terza reazione letteraria », Il Marzocco, 7 febbraio 1897.
1Il punto di partenza di queste note è il 1896, il fatidico anno di Adua, vissuto come « dramma di due generazioni »1 : quella risorgimentale e quella dei « nati dopo il ’70 »2. Una disfatta militare – quella patita dalle truppe italiane in Etiopia, il 1° marzo – che mentre pone fine provvisoriamente ai sogni imperiali dell’Italia liberale, mette in moto un processo di trasformazione nel ceto dei letterati, che, da qualche tempo, va ridefinendosi secondo quei parametri di partecipazione alla vita pubblica o, se si vuole, grazie a un’affatto inedita attenzione alla politica che, a partire dall’Affaire Dreyfus, darà vita compiutamente su scena europea, e non solo, alla categoria degli ‘intellettuali’.
- 3 Rinvio a C. Charle, Naissance des intellectuels (1880-1900), Paris, Éditions de Minuit, 1990, e M. (...)
2Il cosiddetto Manifeste des intellectuels – Une protestation, titolo originario della lettera al quotidiano parigino L’Aurore, con cui un gruppo di professori, artisti, giornalisti chiedevano la revisione del processo e dunque della sentenza di condanna a carico del capitano dell’esercito francese – è del gennaio 18983, quando, in Italia, comincia lo scontro epocale tra due linee politiche della classe dirigente, con un vero e proprio tentativo di colpo di Stato reazionario, che, fallendo, apre la strada al pur prudente, ma lungimirante riformismo di Giovanni Giolitti.
- 4 P. Gobetti, « Un conservatore galantuomo », La Rivoluzione Liberale, III, no 18, 29 aprile 1924, or (...)
3Adua si colloca agli esordi anche di questo percorso, che all’inizio del decennio, nel 1892, ha visto la nascita del Partito dei Lavoratori (futuro PSI), aprendo scenari che per molti uomini di cultura – appartenenti a ceti agrari, spesso membri di un’aristocrazia estenuata, ma convinta di avere ancora nelle sue mani i destini della nazione, o di piccola e media borghesia – appare inquietante. Addirittura, fin dal 1882, data della prima riforma elettorale (che ha prodotto un modestissimo allargamento della base del suffragio, portandolo da poco più del 2 % a circa il 7 % della popolazione), non sono stati pochi coloro che si sono sentiti in pericolo : basti pensare all’opera di Gaetano Mosca, Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare, uno dei ‘testi sacri’ dell’antiparlamentarismo, il quale, solo due anni dopo la riforma, alza altissimi lai sulla perversione della democrazia, in una situazione in cui ormai il voto da privilegio di una casta sta diventando un diritto di un certo numero di cittadini (benché ancora limitatissimo). L’opera dello studioso siciliano, che Gobetti definirà « conservatore galantuomo »4 – Mosca era di Palermo, anche se poi trascorse un trentennio nell’Ateneo torinese, per poi concludere carriera e vita a Roma, dove aveva cominciato come funzionario della Camera dei Deputati – avrà un’enorme importanza, rafforzata poi dai successivi, più canonici sul piano accademico (che infatti gli varrà anno la cattedra di Diritto costituzionale) Elementi di scienza politica che, guarda caso, esce ono precisamente nell’anno di Adua, il fatale 1896.
- 5 G. Carducci a C. Zanichelli, 10 marzo 1896, citato in P.M. Arcari, Le elaborazioni della dottrina p (...)
- 6 Cfr. S. Sighele, Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia collettiva, Milano, Treves, 1895, (...)
4L’opera di Mosca rappresenta solo la parte emergente dell’iceberg costituito da una congerie di pubblicazioni – articoli e pamphlets, perlopiù – volti a screditare il parlamentarismo, ossia la ‘degenerazione’ dell’istituto parlamentare, ma in realtà indirizzati a una messa in discussione dello stesso sistema liberale, visto come il cavallo di Troia del socialismo. Eccesso di potere del Legislativo sull’Esecutivo e sul potere del re, abbassamento del livello morale e intellettuale dei membri della Camera (rimanendo il Senato, fortunatamente – secondo il punto di vista degli antiparlamentaristi – di nomina regia), suo discredito generale per il prevalere di ‘camarille’, ossia di clientele, legate a figure di capi locali, oltre che naturalmente l’inaccettabile dilatazione del corpo elettorale, causa prima di tanto sconquasso : basti pensare che nel Parlamento italiano per la prima volta va a sedere, con le elezioni del 1882, un operaio, quell’Andrea Costa che sarà il primo compagno di Anna Kuliscioff, « la signora del socialismo italiano ». Tali, dunque, le spiegazioni principali della ‘degenerazione’ nell’analisi dei critici del parlamentarismo, che diventa il bersaglio polemico di tanti, e viene addirittura connesso alle sfortune delle armi italiane : un Giosuè Carducci che sta per uscire di scena – l’antico, sanguigno progressista e repubblicano delle lettere italiche – parla della sconfitta di Adua come dell’« ultimo obbrobrio del parlamentarismo »5. L’anno prima, un antropologo di scuola lombrosiana, irredentista trentino, Scipio Sighele, dà alle stampe il libello Contro il parlamentarismo (1895), mentre l’anno dopo Adua (dunque l’anno dopo la pubblicazione dell’opera principale di Gaetano Mosca) un personaggio assai in vista del mondo politico, Sidney Sonnino, pubblica sulla Nuova Antologia un articolo-manifesto dal titolo perentorio : Torniamo allo Statuto6. Sebbene la lettura attenta dell’uno come dell’altro testo ne riveli il carattere moderato di critica mossa dall’interno del sistema, più che di attacco oltranzistico al sistema stesso, il contesto in cui essi vengono pubblicati e l’utilizzo che ne verrà fatto, candida entrambi gli autori al ruolo di battistrada della « riscossa nazionale » del ceto politico-intellettuale, con un gioco di interscambio tra l’uno e l’altro versante.
- 7 Cfr. E. Corradini, Discorsi politici (1902-1923), Firenze, Vallecchi, s. d. [1924], p. 8. Sul perco (...)
- 8 Il Marzocco, « Abba Carima », Il Marzocco, 8 marzo 1896.
5Adua, dunque : precisamente in quell’anno fatale, un manipolo di letterati fiorentini dà vita al Marzocco, forse la prima sede in cui la categoria si interroga sul proprio ruolo, aprendo così la stagione fiorentina delle riviste, su cui fiumi d’inchiostro sono corsi. Del gruppo fa parte Enrico Corradini, scrittore e pubblicista di non grandi speranze, nato nel 1866, che guarda a D’Annunzio come nume ispiratore, e si produrrà come tanti altri suoi concittadini della Res publica literarum, in testi di ispirazione dannunziana, ovviamente. Corradini dirà, ex post, che proprio Adua segnò l’avvio della sua « conversione » dalla letteratura alla politica, e l’affermazione appare credibile7. Suo è l’editoriale del Marzocco – non firmato – dedicato alla sconfitta italiana8. Abba Carima (il nome della località esatta, nei pressi di Adua, dove avvenne la battaglia) diverrà una sorta di bandiera di un movimento di idee volto a costruire la figura dell’eroe incompreso e solitario, Francesco Crispi – profeta inascoltato, perché troppo avanti rispetto a un popolo incapace di costruire il proprio futuro – e, contemporanamente, a individuare in un certo depresso spirito patriottico la causa profonda della sconfitta. Di qui la necessità di avviare un lavoro di pedagogia nazionale volto a ridare coscienza alle classi dirigenti, ormai manifestamente incapaci di provvedere ai destini d’Italia. La borghesia può risorgere ? – si chiederanno Vilfredo Pareto e Giuseppe Prezzolini, in un dibattito di qualche anno dopo (1903-1904), su un’altra rivista fiorentina, Il Regno, fondata da Corradini stesso con Aldemiro Campodonico, nel novembre del 1903. Pareto, accanto a Mosca, è uno dei numi tutelari dell’attacco al parlamentarismo, e della perorazione della causa borghese, contro i rischi di una democrazia che a quell’epoca Corradini non esita a definire come « insocialistata ».
6Il mito di Crispi in realtà va oltre l’agiografia, e diviene immediatamente la teorizzazione di un ‘uomo’ che mette insieme il richiamo alla romanità cesarea, e ai tempi in cui « eravam grandi », e gli altri « ancor non nati », con l’auspicio di un altro uomo provvidenziale, che raccolga il testimone lasciato cadere da questo, non certo per sua debolezza, bensì per incapacità degli italiani di sorreggerlo. Crispi, dunque, sarà presto oggetto di una costruzione mitopoietica, che associa l’iroso disprezzo verso il presente indegno di cotanto uomo, eroicizzato opportunamente secondo canoni classici, e, ad abundantiam, il richiamo ai grandi modelli del passato, in specie il passato della Roma caput mundi. Crispi è il Cesare pugnalato da un’Italia-Bruto, un Paese incapace di essere nazione, una società che non appare in grado di reagire a un processo in corso di degrado, assediata dalle torme di « quelli che non hanno e che non sanno ». Mi riferisco a un titolo di Mario Morasso, erratica figura di letterato, antropologo, giornalista, sociologo. Il libro esce nel 1899, ed è stato preceduto, l’anno prima – l’anno delle cannonate in piazza, a Milano, contro la folla, da parte del generale Bava Beccaris, poi prontamente premiato dal re, che così firmava la propria condanna a morte, eseguita due anni dopo da Gaetano Bresci, a Monza – da una sorta di manifesto stirneriano-nietzscheano : Uomini e idee del domani, che reca nel sottotitolo la parola chiave : « L’egoarchia ». Nel medesimo anno appare Al di là del bene e del male : quegli aforismi (apparsi in edizione originale nel 1886), in cui ciascun lettore poteva reperire frammenti per dar corso ad una sua propria lettura del pensatore tedesco, che cominciava ad essere saccheggiato impunemente. Era il 1898 : l’anno della prima mobilitazione degli « intellettuali » in Francia, e l’effervescenza di letterati, professori universitari, giornalisti, comincia ad apparire subito contagiosa. L’anno prima, quando Sonnino pubblica il suo Torniamo allo Statuto, è apparso L’Unico e la sua proprietà, traduzione italiana dell’opera di Stirner, Der Einzige un der sein Eigentum. Morasso è un acceso individualista che lotta contro il principio egualitario, ricorrendo a una vasta gamma di argomenti – che sovente appaiono farneticazioni – che pescano nella storia, nell’attualità e in un personale deposito di utopie (o distopie), esprimendo un diffuso timore dell’irresistibile avanzata delle masse. Morasso, nello stesso decennio di Adua pubblica una gran quantità di scritti (articoli e interi volumi), tra sociologia, antropologia e teoria politica – con tratti di utopia o di distopia – inneggianti insieme alla modernità e alla gerarchizzazione della società, nell’asserita convinzione dell’esistenza e della necessità dell’egoarca, l’individuo superiore, al quale la massa inerte e bruta deve inchinarsi. Si riaffaccia Nietzsche e, al suo fianco, Max Stirner ; anzi, « l’egoarca » di Morasso richiama probabilmente più da vicino l’Einzige stirneriano che l’Übermensch nicciano.
- 9 Mi riferisco al punto 4° del Manifesto di fondazione del Futurismo, e al testo di M. Morasso, La nu (...)
- 10 G. Papini, « Amiamo la guerra ! », Lacerba, 1° ottobre 1914, ora ibid., p. 264-266.
7Siamo davanti a un’anticipazione di temi e modi del futurismo, a cominciare dalla modernolatria e dalla macchinolatria : abbastanza noto il caso del plagio di cui Morasso sarà vittima da parte dell’astuto Marinetti, che gli ruba la metafora della macchina messa a confronto con la Nike del Louvre9. Del resto proprio Morasso in un articolo sul Marzocco, aveva tirato in campo l’elemento generazionale, che con Marinetti e i suoi sodali diverrà qualche tempo dopo una richiesta pressante di spazi, con un’aggiunta di carattere razzistico e quasi eugenetico, consistente nell’ingiuria ai vecchi, ai malati, ai sofferenti… Un’aggiunta che Morasso aveva peraltro già gettato sul piatto della bilancia, pesantissima spada di Brenno, al di là della questione dei ‘giovani’, semplicemente dividendo l’umanità in deboli e forti, destinati al comando e all’obbedienza, individui d’eccezione e la massa di quanti non possono che sopravvivere, curandosi – magari secondo gli insegnamenti dei socialisti – esclusivamente di riempire il ventre. Quella massa di persone di cui Giovanni Papini, in un famigerato articolo su Lacerba, nell’autunno 1914, dirà che vivono senza sapere, che maledicono il giorno in cui sono nati senza aver il coraggio di maledire la vita10.
8Ma ho precorso i tempi, e mi tocca ritornare indietro : ancora a Corradini, che dopo Adua non rinuncia naturalmente all’attività propriamente letteraria, sia come creatore, sia come critico, modesto questi, quasi indigeribile quello. A conferma di quell’attesa dell’Uomo, di cui dicevo, ricordo il Giulio Cesare, enfio dramma retorico firmato appunto da questo letterato fiorentino, che intanto sul Regno, dopo il Marzocco, porta avanti un incessante lavoro ideologico che definirei di costruzione di senso comune, volto a diffondere un clima di guerra, l’attesa della guerra, presentata come un dato essenziale della realtà vitale del mondo, sia per gli individui, sia per le nazioni, individui maggiori. La guerra è il fine delle nazioni, la guerra è fattore di progresso, la guerra è moderna : incarna, anzi, la modernità, e getta nella pattumiera della storia le parole della Rivoluzione Francese, e rivela la sostanziale ferinità degli esseri umani, mentre facilita lo sviluppo industriale, ma soprattutto risolve i contrasti interni cementando l’edificio nazionale.
9Perciò Corradini saluta con entusiasmo il rombo del cannone, che quasi ad apertura del secolo nuovo, con la guerra russo-giapponese e la vittoria inopinata del piccolo Impero contro il grande Impero, sembra confermare le tesi corradiniane (La conferma del cannone, non per caso s’intitola uno degli articoli). I giapponesi vincono perché sono, nella lettura imperscrutabile di Corradini ‘giovani’, moderni, e soprattutto coesi e solidali. I soldati del Mikado obbediscono come i loro siluri, perfette e obbedienti macchine di morte. Sono una nazione, non sono un coacervo di popoli ; sono una macchina da guerra essi stessi, fusi in un’entità unica e superiore, capace di muoversi all’unisono, mettendo da parte ogni differenza, ogni contrasto, ogni individualismo.
10Le riviste che accolgono i testi corradiniani, insieme a quelli di altri, sono il luogo privilegiato di quel passaggio dalla letteratura alla politica (o meglio, all’ideologia politica), di cui si diceva. E accanto ai temi indicati, un altro leitmotiv è la denigrazione dell’« ignobile socialismo » : contro di esso, ma anche contro le classi dirigenti che dal socialismo si lasciano intimorire, il Regno nasce : la rivista intende essere « una voce contro la viltà presente », la viltà della borghesia che non sa reagire agli assalti delle classi subordinate, ma anche di queste che si lasciano appunto irretire dal socialismo.
- 11 Cfr. A. D’Orsi, Da Adua a Roma. La marcia del nazionalfascismo (1896-1922), Torino, Aragno, 2006, p (...)
- 12 Cfr. A. Hermet, La ventura delle riviste, Firenze, Vallecchi, 1940.
11Il passaggio verso la politica non è univoco ideologicamente, peraltro. Non mancano, tra gli ultimi due decenni del XIX e il primo del XX secolo, letterati, artisti, pubblicisti, giornalisti che hanno guardato al socialismo e al mondo proletario con simpatia, e talora con vero, partecipe interesse, che in qualche caso si tradusse in militanza attiva. È la stagione del « socialismo dei professori », che presto si scontra con il progressivo, rapido processo di seminagione nazionalista e imperialista nel ceto intellettuale. Un Morasso, un Corradini, un D’Annunzio (con tutte le sue contraddizioni), un Pareto, ne sono parte ; mentre escono di scena Lombroso, Graf, De Amicis, che sono stati protagonisti della cosiddetta « andata verso il popolo ». E se alcuni, dalla politica si distaccano, come lo stesso Graf, travolto da un ripiegamento mistico-solipsistico, altri come Giovanni Pascoli, sono folgorati sulla via di Damasco dall’impresa di Libia : la guerra lirica, per dirla con Cesare De Lollis11 ; altri ancora, per esempio Umberto Cosmo e Zino Zini, saranno poi costretti al silenzio con l’avvento del fascismo. E la « ventura delle riviste » (per servirsi del titolo di un’opera celebre12), può essere interpretata, oltre che come la manifestazione delll’irrequietezza del ceto dei letterati – i quali si vanno appunto scoprendo come ceto a sé e chiedono di essere riconosciuti, in ogni senso, all’esterno –, come l’esperienza collettiva che produce, in un crescendo micidiale, un formidabile inquinamento nazionalistico, antiegualitario, antisocialista e antidemocratico in seno agli intellettuali, per l’appunto.
- 13 B. Croce, « Alfredo Oriani » [1908], in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Lat (...)
12Tra Il Marzocco e Lacerba – che chiude la stagione fiorentina nel maggio 1915 – in un confuso agitarsi di aspiranti pensatori, di giornalisti improvvisati, di pubblicisti bons à tout faire, di professori vogliosi di avere platee più ampie di quelle costituite dai loro studenti, di aspiranti opinion makers addirittura, sul modello di Luigi Einaudi (il primo in Italia a rivestire questo ruolo, sulle pagine del Corriere della Sera), di opinion leaders, va segnalato a latere una presenza assente, nella figura del ‘solitario di Casola Valsenio’, ossia Alfredo Oriani. Se nell’anno di Adua – et pour cause – egli dà alle stampe La disfatta (ma già nel 1889 ha dimostrato il suo africanismo colonialista con Fino a Dogali) e nel 1892 ha prodotto un centone di storia d’Italia dal Medio Evo alla presente epoca, dalla quale si dice francamente disgustatato (La lotta politica in Italia), nel 1908, anno fatidico, pubblica quello che egli stesso fa comprendere voler essere il proprio ‘testamento spirituale’ : Rivolta ideale. Benedetto Croce, nel ritratto che stende poco dopo, ma prima della morte dell’Oriani (nell’anno della nascita del futurismo, il 1909), con bonomia non esente da un’analisi critica tagliente, pur giudicando quel libro « sensatissimo », coglie in questo tardohegeliano della provincia italica, dagli esordi alla fine, « un certo modo disdegnoso di ribelle e magnifico di apostolo, che fa mostra di sé in pigli solenni e in affermazioni enfaticamente recise, non più rispondenti alla qualità delle idee che l’autore espone […] ». E elencando i suoi tratti politici lo definisce « antisocialista, antidivorzista, antifemminista, africanista »13.
- 14 A. Gramsci, Quaderno 6, 1930-1932, in Quaderni del carcere, V. Gerratana (ed.), Torino, Einaudi, 19 (...)
13Potrei aggiungere : imperialista e crispino. Il nesso con Crispi, evidente nella stessa autopresentazione dell’Oriani – che in effetti, anche all’occhio dello storico odierno appare forte ed evidente – fu colto con ben altro acume da Antonio Gramsci, che, nondimeno, esprime con accenti simili a quelli crociani un giudizio decisamente più severo, anzi di una certa (a mio avviso giustificatissima) ferocia critica, parlandone come del genio incompreso, apostolo senza seguaci, maestro di vita…, come viene rappresentato nella sua riproposta immediata voluta da Mussolini in persona – di ciò Gramsci non fa cenno, ovviamente – nella galleria dei cosiddetti precursori, o dei fascisti antemarcia ad honorem… E si chiede Gramsci : « Ma fu poi Oriani ‘incompreso’, o si trattava di una sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini ? » ; e lo liquida come un « velleitario che voleva essere pagato prima di aver compiuto l’opera, che voleva esser riconosciuto ‘genio’, ‘capo, ‘maestro, per [un] diritto divino da lui affermato perentoriamente ». E conclude, appunto, con il riferimento all’altro incompreso dell’Italia liberale, Crispi, a cui Oriani « deve essere avvicinato […] come psicologia», ma, aggiunge Gramsci, anche « a tutto uno strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti più bassi, cade nel ridicolo e nella farsa intellettuale »14.
- 15 Cfr. E. Santarelli, « La fortuna di Oriani », in appendice a G.B. Bianchi, Alfredo Oriani, Urbino, (...)
14Oriani appare, in buona sostanza, l’equivalente sul piano intellettuale di quel che Crispi è stato sul piano politico, accomunati nella enfatizzazione mitopoietica postuma degli ideologi nazionalisti fino alla Grande guerra e oltre ; per poi essere trasformati, sotto il fascismo, in icone, a carattere iperideologico, ben oltre, naturalmente, quel che i testi e gli atti dei due potessero giustificare. In fondo, il rilievo della sua opera in sé stessa è davvero modesto ; ma sul piano politico essa è importante, a distanza. Il suo peso diverrà reale solo dopo la sua morte, con l’imbalsamazione fascistico-imperiale, avvenuta col suggello dello stesso Mussolini, sotto la cui egida l’editore Cappelli avvia l’Opera Omnia di Oriani già nel 192315.
- 16 P.M. Arcari, Le elaborazioni…, vol. I, p. 519.
15Il 1908, dunque, anno della Rivolta ideale, è anno cruciale per la nostra storia. Si tratta dell’anno della « Bosnia fatale »16, con ciò che comporta, in particolare, l’ondata senza precedenti di irredentismo, in nome della « più grande Italia » ; e quel fatto storico – l’annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Impero austro-ungarico – dà la stura a tutta una congerie di pubblicazioni (periodici, ma anche pamphlets e varia produzione giornalistica…) in cui la parola Italia, accompagnata da aggettivi quale grande, nuova, o la parola Roma, diventano le più diffuse ; ma non mancano titoli che fanno riferimento al mare (magari ‘nostro’), all’espansione coloniale, e agli strumenti necessari, a cominciare dalla nave. La Nave, non a caso s’intitola il testo teatrale di D’Annunzio, rappresentato in quell’anno a Roma alla presenza delle Loro Altezze Reali, in un tripudio di canti e inni, e sventolio di bandiere.
- 17 Ho sviluppato questa tesi nella relazione « Una voce pro, una voce contro », nel Convegno fiorentin (...)
16Intanto, fuori d’Italia, Georges Sorel dava alle stampe le Réflexions sur la violence, già apparso in rivista nel 1906 : com’è noto, assai più che in Francia, il libro avrà un effetto significativo in Italia, dove l’autore ha buoni amici, come dimostra la Prefazione di Benedetto Croce all’edizione Laterza, nel 1909. Fortuna italiana, ma anche francese, e soprattutto tedesca, ebbe un altro testo francese apparso sempre nel 1908 : Psychologie des foules di Gustave Le Bon, che fu una sorta di manuale di imbonimento nelle mani dei duci del totalitarismo. Proprio alla fine dell’anno, con la fondazione de La Voce, la stagione fiorentina delle riviste arriva al suo punto culminante. Il protagonismo degli intellettuali raggiunge il suo acme ; nel contempo, nel breve volgere di qualche anno, la rivista, perdendo via via dei pezzi importanti – l’esempio principale è Salvemini, che rompe con Prezzolini sulla Libia, fondando nel ’12 L’Unità – sembra avvicinarsi al ruolo interpretato fin dall’esordio dal Regno di Corradini : una « voce », sì, ma una voce « contro la viltà presente », dunque una voce impastata di nazionalismo, antisocialismo, imperialismo17.
- 18 G. Benedetti, Enrico Corradini, Piacenza, Porta, 1922, p. 10.
- 19 Il discorso al Senato di Mussolini (11 dicembre 1931) è leggibile come tutti gli altri testi mussol (...)
17Testo per il teatro è, ancora nel 1908, quello da Corradini dedicato a Charlotte Corday (italianizzato in Carlotta Corday), melenso dramma apologetico dell’eroina controrivoluzionaria e, a dimostrazione del passaggio di questo letterato verso la politica, si pone la raccolta di articoli L’Ombra della Vita, con un Epilogo aggiunto ai testi, in cui l’autore – futuro « padre »18 del nazionalismo italiano – cerca di trarre gli esiti direttamente politici del proprio lavoro pionieristico. Non a caso, Benito Mussolini si riferiva all’articolo corradiniano dedicato ad Adua, nel 1931, commemorandone la scomparsa, quando gli assegnò la palma del fascista « della primissima ora » : « egli non era soltanto del 1919, ma del 1896 »19. Il duce sottolineava, con l’enfasi della circostanza, la complessiva opera dottrinale e organizzativa di Corradini, il cui esordio nazionalista e fascista ante litteram era appunto collocato al 1° marzo ’96 : Adua.
- 20 H. Massis, G. de Tarde, Les jeunes gens d’aujourd’hui, Paris, Imprimerie nationale, 1995 (1a ed. fi (...)
18E ritorniamo appunto a quella disfatta e all’uscita di scena del suo eroe sconfitto, mentre la politica estera si va assestando su binari che di lì a poco i soliti letterati avrebbero bollato come « pantofolai », innescando una lunga, nuova campagna d’Africa, che si sarebbe, provvisoriamente, conclusa sui deserti della Tripolitania e Cirenaica, nel 1911-12. Il virus nazionalistico e imperialistico avrebbe tratto linfa proprio dalla rinuncia dei governi post-crispini a seguito della disfatta africana. L’idea del necessario ‘riscatto’, grazie proprio al lavorio di un Corradini e di pochi altri hommes de plume, non tardò a imporsi sia pure in circoli ristretti, ma composti da personalità di rilievo sul piano intellettuale e politico. In particolare, quel virus si diffondeva tra i giovani, come accadeva del resto anche fuori d’Italia, per esempio in Francia, come dimostra l’inchiesta condotta nel 1912 da Henri Massis e Gabriel Tarde, sotto lo pseudonimo di Agathon : qui, la cosa più notevole è l’aspirazione della gran parte dei giovani intervistati alla guerra ; e si noti pure che gli autori dichiarano che vogliono « abbozzare i tratti dei migliori e descrivere il tipo nuovo della giovane élite intellettuale »20.
- 21 U. Fracchia, « Una generazione », in Pier Ludovico Occhini, A. Severi (ed.), Arezzo, R. Accademia P (...)
- 22 C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano (D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandell (...)
- 23 Rinvio alle opere ormai classiche : E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900 /1943 [1955], e, (...)
19Insomma, « fu quella l’epoca in cui ogni giovane di vent’anni si sentì superuomo, cioè solo, e più grande della realtà, e diverso da tutti, e contro tutti »21. Il superomismo si diffondeva, per il tramite letterario, in specie dannunziano : « Il superuomo […] è il punto d’arrivo della personalità dannunziana »22. Il poeta pescarese, già alla fine degli anni Ottanta, aveva incontrato la teoria dell’Übermensch (ma il superomismo era una componente già presente in D’Annunzio) facendola propria, piegandola alle proprie esigenze e conferendole tratti antidemocratici e antiegualitari, bellicisti e imperialisti. Sono questi gli anni in cui, oltre alle maggiori opere di Nietzsche, viene tradotto in italiano Stirner, un filosofo che colpisce potentemente l’immaginazione del giovane Mussolini come ha colpito – e s’è detto – Morasso. Fortuna arride a due campioni dell’irrazionalismo, Schopenauer e Spengler ; mentre il pragmatismo di William James troverà, specie a partire dai cenacoli delle riviste fiorentine d’inizio secolo, estimatori, quali Vailati, Calderoni, Papini e Prezzolini ; infine, le suggestioni francesi di Bergson, Boutroux, Blondel e Sorel produrranno una miscela che, al di là dei singoli componenti, avrà un prevalente segno di sovversivismo reazionario23.
- 24 G. Volpe, Italia moderna [1949], Firenze, Sansoni, 1973, vol. I, p. 358 (ora Firenze, Le Lettere, 2 (...)
- 25 Ibid.
20Mette conto invece richiamare ancora i nomi di Vilfredo Pareto e Gaetano Mosca, le cui opere principali – i già citati Elementi di scienza politica (1896) e Les systèmes socialistes (direttamente in francese nel 1902-1903) – delimitano il passaggio di secolo, svolgendo il ruolo di punta di diamante nell’attacco concentrico da più parti mosso, come dicevo, apparentemente al ‘parlamentarismo’, ma, in vero, per una sorta di slittamento politico progressivo, alla democrazia rappresentativa. D’altronde – secondo l’ideologica e accattivante ricostruzione di un grande storico liberal-nazionalista e poi fascistissimo, come Gioacchino Volpe – per l’appunto nella crisi di fine secolo il parlamento tocca, « dopo decenni di mala reputazione e di attacchi da tutte le parti […] il massimo del suo discredito »24. E non pour cause, mentre si deplora la degenerazione dell’istituto parlamentare, si invoca « un capo che si [possa] seguire con fede, capace di conciliare i grandi atti con i grandi pensieri e di favorire, promovendo lo sviluppo economico, le superiori apparizioni della vita »25.
- 26 P.M. Arcari, Le elaborazioni…, vol. I, p. 239. Cfr. poi S. Gentili, Trionfo e crisi del modello dan (...)
- 27 G. Benedetti, Enrico Corradini, p. 45.
- 28 Citato in F. Roncoroni, « Gabriele D’Annunzio. La vita. Profilo storico-critico dell’autore e dell’ (...)
- 29 V. Picardi, rec. a « P.L. Occhini, Enrico Corradini. Scrittore e nazionalista, Roma, Garzoni Proven (...)
21Intanto, il fiorentino Marzocco, vive, in quegli stessi anni, il dibattuto trapasso dall’estetismo alla milizia letteraria e, in quanto tale, civile. Sulle sue colonne si svolge, in sostanza, il primo dibattito sul ruolo del letterato : contemplatore e creatore del bello, o militante per un’idea ? In realtà, si assiste a un diffuso passaggio dalla letteratura, appunto, alla politica. La « bellezza », il suo culto paganeggiante, finisce per essere « uno dei tramiti dell’idea nazionale »26 : d’altronde, colui che ne è il massimo sacerdote, D’Annunzio (di cui Corradini sarà definito « fratello in ispirito »)27, proclama, fin dai suoi esordi, di non essere « un poeta mero »28 ? Sicché tanto Corradini quanto i suoi amici-seguaci non tarderanno a lasciarsi alle spalle la « tradizione bibliotecaria del letterato italiano »29 ; così come molti fra loro non avranno difficoltà ad abbandonare le sponde socialistiche, sulle quali erano approdati, secondo un diffuso orientamento dell’intellettualità in età di tardo positivismo. Sintomatica l’affermazione di un letterato di orientamento « nazionalistico » alla vigilia di Adua :
- 30 Si tratta di Enrico A. Butti che così risponde alle domande del suo intervistatore : U. Ojetti, All (...)
L’arte non ha molto da sperare da una società dove le idee democratiche non sieno più platoniche affermazioni parlamentari o retoriche divagazioni giornalistiche. L’arte ha tutto da temere da un prossimo trionfo del Socialismo rivoluzionario ; per questo, noi, nelle nostre opere più ideali e più alte, dobbiamo sempre tendere indirettamente o direttamente a combattere l’avvento dei rozzi e degli ignoranti. […] Noi, con le nostre opere ci rivolgiamo alle classi nobili, colte e facoltose : gli interessi vitali di queste classi sono i nostri medesimi. Purtroppo esse se ne sono dimenticati, o hanno paura di ricordarselo ! Il nostro esempio e i nostri avvertimenti potranno forse richiamare queste classi ai loro doveri ed ai loro diritti. Un’aristocrazia sarà così ricostituita e stretta in falange ; un’aristocrazia che farà una terribile resistenza con la forza dell’ingegno, delle tradizioni e del censo, a quelli che non hanno altro per sé che la forza del numero30.
- 31 N. Bobbio, « La cultura italiana fra Ottocento e Novecento », in La cultura italiana tra ’800 e ’90 (...)
- 32 Cfr. R. Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della Voce [1978], Roma – Bari, Laterza, (...)
22Affiora non soltanto il timor panico del socialismo e dell’avvento delle masse, ma altresì il sintomo chiaro di un modo nuovo di considerare la propria funzione nella società. La stagione delle riviste – tra la fine secolo e lo scoppio della guerra mondiale, con delle significative propaggini negli anni stessi del conflitto e nel primo dopoguerra – « riportò in onore la figura dell’intellettuale missionario, mentore, pedagogo, magari anche profeta e vate, e veggente »31. Insomma, questa generazione si candida ad avanguardia intellettuale delle classi dominanti, pur fustigandole. Essa non è soltanto mossa da animosità ideali (perlopiù discutibili) e sperimentalismi artistici (spesso velleitari), ma dalla crescente consapevole insoddisfazione circa il proprio ruolo sociale : di provenienza aristocratica e alto-borghese, o d’estrazione medio e piccolo-borghese, urbani o rurali, questi giovani incominciano a costituirsi come classe che, contraddittoriamente, da un lato aspira all’autonomia e dall’altro si propone come parte – la migliore – della borghesia, intesa in termini più mitologici che sociologici ; si scoprono sempre più frequentemente come proletari dell’intelletto e rimuginano ansie ribellistiche contro il capitalismo e il socialismo, ma nel contempo temono soprattutto di essere inghiottiti dal ventre molle della massa32.
- 33 F. Barbagallo, « Età giolittiana », in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contempora (...)
- 34 Cfr. la prefazione di G. Prezzolini alla raccolta in G. Papini, G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazi (...)
23È un « divorzio tra cultura e politica» che segnala il « mancato successo […] del progetto di dare una direzione democratico-riformista a un processo di modernizzazione attraverso una concentrata industrializzazione »33. Esso postula perciò un nuovo e affatto diverso riavvicinamento della cultura alla politica, che scardini il sistema giolittiano, dai cui accordi sociali e dai cui equilibri politici gli uomini di cultura si sentono esclusi. Le esigenze di questi intellettuali si possono riassumere in due parole d’ordine : dare vita a una cultura militante, che consenta loro di essere protagonisti delle nuove, imminenti e necessarie battaglie politiche, industriali, commerciali e culturali della nazione ; spingere alla formazione di una nuova classe politica all’altezza dei compiti storici. È evidente che, per quanto concerne specialmente il secondo punto – ma a ben vedere anche il primo – il referente essenziale è quello elitistico. D’altronde, agli inizi del Novecento tanto Mosca quanto Pareto, provvisti di differenti retroterra politici, si presentano come campioni di una riscossa borghese che faccia giustizia delle presunte degenerazioni del sistema parlamentare e freni drasticamente l’avanzata del socialismo « livellatore ». Non avranno torto Papini e Prezzolini, allorquando, rivendicando per se stessi un ruolo di iniziatori – attraverso la rivista II Regno che tiene dietro al Leonardo – della corrente nazionalistica, assegneranno ai due scienziati sociali la palma di grandi – e certo in parte inconsapevoli – suggeritori delle idee forza di quel proto-nazionalismo34.
- 35 Cfr. D. Castelnuovo Frigessi, « Introduzione », in La cultura italiana del ’900 attraverso le rivis (...)
24In realtà Pareto, non diversamente da Corradini, Papini, Prezzolini e gli altri, è ideologo, ben più che scienziato, allorquando sulle colonne della rivista fiorentina (Il Regno), pretende di insegnare agli uomini di cultura la necessità e la via di una stretta alleanza alla classe borghese, fino a una totale identificazione in essa, per rintuzzare gli assalti del proletariato35. Di particolare interesse il dibattito Pareto-Prezzolini, al riguardo. Entrambi concordano sulla diagnosi e la sintomatologia di una decadenza borghese (una crisi d’egemonia, per servirsi del concetto gramsciano) ; ma, mentre per Pareto, che afferma di fondarsi unicamente sui fatti, è difficile prevedere un risveglio di chi è « tanto vile e remissivo che invece di opporsi al nemico lo seconda », nell’analisi di Prezzolini « non è la potenza che manca alla borghesia » :
- 36 Il dibattito esce col titolo « La borghesia può ancora risorgere ? », Il Regno, I, no 7, 10 gennaio (...)
Ciò che è mancato finora alla borghesia italiana, è stato l’esempio e una voce di forza. Il luogo comune corrente fra gli stessi borghesi, il loro nemico interno, era una certa convinzione d’essere condannati, di dovere, presto o tardi, cedere tutto al nemico ; e questa convinzione li ha troppo spesso gittati nella viltà dell’inerzia, o nella colpa delle concessioni. […] È mancato finora un esempio e una voce : cioè un uomo36.
- 37 Cfr. J.-L. Miège, L’imperialismo coloniale italiano. Dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 19 (...)
- 38 E. De Marinis, « Prefazione », in G. Amadori Virgilj, Il sentimento imperialista. Studio psico-soci (...)
25Prevalgono nel settimanale corradiniano bellicismo ed espansionismo : non è tanto la « liberazione » di quella parte d’Italia ancora soggetta all’Austria, quanto piuttosto il reperimento di adeguati sbocchi all’eccedenza di popolazione, la « tutela » della nostra crescente emigrazione, in una parola l’espansione della nazione. Anche in questa tematica Il Regno è tutt’altro che originale : un’ideologia coloniale prende corpo in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta : i suoi argomenti sono economici, politici e antropologici, non diversamente da quanto si legge sulla stampa e la panflettistica inglese o francese del periodo ; peculiarmente italiani risultano invece gli argomenti di carattere storico, col richiamo alla romanità, o demografico, quest’ultimo collegato alla questione meridionale37. D’altronde, nel primo decennio del Novecento, sulla base delle sollecitazioni politiche e culturali europee, il dibattito sulla colonizzazione e sull’imperialismo si intensifica : lo « studio » del fenomeno dell’imperialismo si traduce in un tentativo di coglierne il « sentimento » nel popolo italiano, di elaborarne una teorica, e, con crescente chiarezza, di favorire la ripresa di una politica « crispina », nella convinzione che « l’emigrazione, la colonizzazione, l’imperialismo sono i mezzi stessi, le condizioni dell’allargamento della civiltà e del cammino del progresso »38.
- 39 Cfr. G. Landucci, « Darwinismo e nazionalismo », in La cultura italiana tra ’800 e ’900…, p. 103-18 (...)
- 40 Del cesarismo corradiniano fa fede la tragedia Giulio Cesare (1902) (« De son Jules César, il sorti (...)
- 41 Nella lettera (s. d. ma del 1905), riferendosi a un proprio non precisato testo teatrale Corradini (...)
26Su questo tronco s’innesta la critica di Enrico Corradini, materiata di decadentismo e di positivismo ; ma anche di classicismo neopagano e di romanticismo. Non mancano echi del darwinismo sociale, ancorché piuttosto vaghi39, mentre l’influsso del nazionalismo francese – forse più per il tramite letterario di un Barrès o, che per quello teorico-ideologico di un Maurras – talora sopravvalutato in sede polemica e storiografica, ora al contrario negato, appare nell’insieme tutt’altro che decisivo. La critica alla Rivoluzione francese certamente egli la riprende dalle più argomentate polemiche barresiane o maurrassiane ; mentre, anche per l’influsso di Thomas Carlyle (il teorico della figura dell’eroe nella storia), sulla scorta della rivisitazione dell’età romana avviata grosso modo a partire dagli anni Ottanta, in pieno positivismo – della cui cultura egli è fortemente imbevuto –, Corradini si scopre una vena di cesarismo e di eroicismo, destinata a contribuire all’alimentazione del mito del capo che tanta parte avrà nell’edificazione e nella conservazione del potere fascista40. La partecipazione al Regno segna, comunque, all’interno del processo corradiniano più che il superamento della letteratura o il suo annegarsi nella politica, la chiarificazione progressiva del significato potenzialmente ideologico dell’arma letteraria ; soltanto nel periodo successivo allo scoppio della Grande guerra, all’incirca, Corradini relegherà davvero la letteratura fra i « peccati di giovinezza », come egli scrive all’amico Carlo Placci41. Tra l’un territorio (la letteratura) e l’altro (l’ideologia politica), rimane ferma, nell’elaborazione corradiniana, la vocazione del moralista e l’attitudine del pedagogo. In tal senso è vero, come è stato osservato, che il concetto chiave dell’intero universo corradiniano, la nazione, finisce per identificarsi in quello di missione.
- 42 Cfr. L. Strappini, « Introduzione », in E. Corradini, Scritti e discorsi / 1901-1914, L. Strappini (...)
[…] una nazione è soprattutto un consentimento di generazioni che seguono a generazioni, per una missione, da compiere attraverso i secoli. Distruggete la missione, oscura nelle moltitudini, chiara nei capi, […] distruggete cioè, il dovere dell’opera che nasce oggi dell’opera di ieri, e sempre più vasta, e avrete distrutta la nazione. […]. Avrete distrutta la storia della nazione e ne resterà solo la cronaca ; perché la cronaca è dei cittadini e la storia delle nazioni. Sono cronaca che passa, le agitazioni de’ cittadini dentro il confine ; sono storia gli atti della nazione in cospetto delle altre nazioni42.
- 43 E. Corradini, « La virtù nazionale », Il Regno, II, no 6, 5 febbraio 1905 (poi in La vita nazionale(...)
27Perciò la nazione, culmine della triade nella quale l’individuo e la famiglia sono gli anelli inferiori, è un punto di arrivo ideale, oltre che un dato naturalistico : sono degni del nome di nazione solo quei popoli che mostrano la propria « virtù » rivelatrice del carattere, della forza e dell’anima. Ciò accade quando « tutto un popolo […] diventa come un uomo solo, innumerevoli vite […] diventano una vita sola ». La virtù per eccellenza è la solidarietà : del popolo coi suoi reggitori politici (e viceversa), della nazione con il suo passato, ma anche con l’avvenire43.
28Il momento in cui tutto ciò prende corpo, è quello che in quegli stessi mesi (da febbraio 1904 a settembre 1905) fra Russia e Giappone sta offrendo « la conferma del cannone ».
- 44 Cfr. « La conferma del cannone », in Il Regno, I, no 12, 14 febbraio 1904 (ora nell’antologia La cu (...)
Veramente questa grande guerra sembra fatta per noi. […] Si fanno guerre per far degli affari, per arricchire, non più soltanto per cantare degli inni o per difendere il focolare domestico. […] Ma noi vorremmo che per l’Italia questa guerra, qualunque ne abbia ad esser l’esito, fosse una serie di lezioni necessarie. Prima di tutto una lezione d’energia44.
- 45 E. Corradini, « Susume ! », Il Regno, I, no 28, 5 giugno 1904 (poi in La vita nazionale, quindi in (...)
- 46 Cfr. A. D’Orsi, Il Futurismo…, in particolare l’« Introduzione » e il cap. I.
29Continua Corradini : « Non v’è nulla di più mirabile dell’arma moderna dalla rivoltella al cannone, dal cannone alla corazzata, ordigni complicati come il cervello dell’uomo, attivi come il fulmine »45. Ma si aggiunga anche questo brano tratto da un altro articolo di Corradini, nel quale l’idolatria del moderno diventa esaltazione parossistica della velocità, dell’azione meccanica capace di riprodurre e moltiplicare la forza degli elementi naturali. Futurismo e proto-nazionalismo nascono fratelli in spirito, figli della stessa madre46 :
- 47 E. Corradini, « La guerra », Il Regno, I, no 14, 28 febbraio 1914 (ora in La cultura italiana del ’ (...)
La credenza nella modernità della guerra è cosa che urta tutte le opinioni di moda fondate sulla dottrina e su certa coscienza cosmopolitica ; ma la modernità della guerra è un fatto. Appare un fatto evidente, quando si consideri non sotto un fallace aspetto umanitario, sebbene sotto il reale aspetto umano. E basta riflettere che oggi la vita mondiale obbedisce a questa legge : massima velocità, massima intensità, massimo sforzo per le massime opere. […] Ci si trova dinanzi ad un fenomeno nuovo nella storia, al fenomeno degli strumenti la cui potenza ciecamente esecutrice supera la potenza iniziatrice e la volontà e i nervi del loro stesso inventore e possessore47.
30Qui si scorge un’anticipazione, degna di Mario Morasso, del furore bellicistico dei futuristi e della loro apologetica del moderno. E, tuttavia, per i giovanotti del Regno il fatto bellico non è fine a se stesso, per quanto fascinoso esso appaia : la guerra è un mezzo, il fine resta la nazione ; al limite, come ancora più chiaramente apparirà negli anni seguenti, tra le sabbie della Tripolitania e le colline del Carso, una guerra, una qualsiasi, merita di essere combattuta per trasformare uno sparso Paese, in un’autentica nazione, la quale ha bisogno di sangue, come i mattoni del cemento. Soltanto la guerra esterna – la « storia » di una nazione – potrà sconfiggere la guerra interna – la « cronaca » ; l’espansionismo imperialistico avrà il compito di frenare il rivendicazionismo operaio, magari associando le classi proletarie ai vantaggi che le conquiste di nuovi territori o l’allargamento dei mercati sicuramente recheranno : la lotta delle nazioni prenderà il posto della lotta delle classi.
- 48 Cf. M. Morasso, Contro coloro che non hanno e che non sanno, Milano, Sandron, 1899, e F. Nietzsche, (...)
31Gli anni dal Marzocco al Regno, dalla Voce a Lacerba, da Adua al Piave, insomma, sono anni importanti ai fini della messa a fuoco delle tematiche che costituiranno i nodi teorico-politici dell’ideologia nazionalista, e la preparazione di quella fascista ; ma altresì per la costituzione di un ceto intellettuale in senso proprio. Ossia, scrittori, giornalisti, professori, artisti che cominciano sistematicamente a farsi gli affari di tutti, per dirla con Jean-Paul Sartre ; ma, di più, iniziano a guardare direttamente alla polis, non soltanto come dimensione collettiva, ma precisamente come sede di elaborazione, di incontro e di scontro per l’esercizio del potere. Il passaggio dalla letteratura alla politica appare compiuto pienamente con la campagna per l’Intervento, tra l’estate 1914 e la tarda primavera 1915. Ma prima di allora numerosi saranno i connubi tra letteratura e politica, in un crescendo che conduce verso un pensiero nazionale, prima, e, poi, verso una compiuta dottrina nazionalistica che, a sua volta, sebbene non da sola, apre le porte al fascismo : tra il Morasso teorico della supremazia dell’egoarca e della necessaria sottomissione di « quelli che non hanno e che non sanno » (un libro che esce, non casualmente, nell’anno della traduzione italiana di Also sprach Zarathustra)48, il Marinetti esaltato cantore di un osceno vitalismo aggressivo del Roi Bombance (1905), prima della fondazione del suo movimento o, dopo, di una genetica meccanica che supera la biologia e il « sentimentalismo » con Mafarka le futuriste (nel 1909, e nel 1910 l’edizione italiana). Quindi, piuttosto naturalmente, in questo tragitto, il posto spettante al Futurismo è eminente. La spugna Marinetti assorbe tanti umori, e li riorganizza nella poetica e nell’ideologia politica futurista. Passa attraverso vitalismo e pragmatismo, Morasso e D’Annunzio, e raccoglie elitismo, antiparlamentarismo, irredentismo, anticlericalismo, proto-nazionalismo, ideologie imperialiste e colonialiste, antisocialismo, e, ovviamente, rifiuto della democrazia.
32La guerra di Libia, già citata, è il banco di prova per gran parte degli esponenti del mondo dei « colti » o, come li chiamerà sempre Marinetti, « gli intelligenti d’Italia », o ancora : il « proletariato dei geniali ». Sono, insomma, gli intellettuali che chiedono spazio e che nel contempo si dispongono, ideologicamente, sul fronte ostile a quell’apertura politica alle masse lavoratrici che, in modo ormai nitido, Giolitti ha messo sul piatto della bilancia nazionale, in un intelligente disegno di allargamento delle basi dello Stato liberale. L’opposizione dei chierici in realtà si esprime anche nella polemica verso una politica estera giudicata timorosa, ‘vecchia’, o addirittura antiquata, paradossalmente, in quanto ci si richiama a un uomo del passato, il Crispi, in nome sovente di ideali antichissimi, quelli della Roma imperiale : e cionondimeno la politica del « piede di casa » viene giudicata antimoderna o, forse piuttosto, non in sintonia con ‘il moderno’. La modernolatria, che da Morasso a Marinetti diverrà cifra essenziale di un più vasto movimento ideologico-culturale, non a caso, avrà come baricentro l’esaltazione della guerra, vista come fattore di progresso, di rinnovamento, di avanzata del ‘nuovo’ : in politica, in morale, in arte, in scienza. Giolitti, e la classe dirigente liberale, ma anche la dirigenza socialista, rappresenta, agli occhi di questi sempre più agitati e concitati giovinotti, la rinuncia alla necessaria grandezza della nuova Italia, un ripiegamento da « pantofolai » nei confini segnati da « l’uscio di casa ». Ma significano anche e forse soprattutto, comunque, il mancato riconoscimento dei « diritti dell’intelligenza ». Il progetto che sta dietro la rivista La Voce (Firenze, 20 dicembre 1908) è, nel contempo, di rinnovamento del Paese, e di un ruolo nuovo, anche politico, per gli intellettuali. E un po’ alla volta, nel triennio che conduce alla guerra libica, quell’ambizione protagonistica si incrocia con le istanze nazionalistiche portate avanti da Corradini e dalla sua pattuglia di giovani letterati. La rottura di Salvemini con Prezzolini, proprio in merito alla guerra di Libia, con la conseguente fondazione de L’Unità da parte dello storico pugliese, in realtà avviene non tra ragioni della guerra e ragioni della pace, ma di opposte visioni geostrategiche e di un diverso atteggiamento verso Giolitti, bollato ormai per sempre quale « ministro della malavita » da Salvemini, mentre per gli altri, con la ‘concessione’ della guerra africana, riabilitato, sia pur provvisoriamente.
- 49 O. Morgari a G. Balsamo Crivelli, 25 agosto 1913, citato in G. Bergami, « Gramsci e i lineamenti id (...)
33Nondimeno, intorno alla Libia si registrano ampie zone di dissenso, pur all’interno di uno sgretolarsi del fronte democratico e socialisteggiante : il discorso (27 novembre 1911) di Giovanni Pascoli a Barga, in provincia di Lucca, quello conosciuto con il suo efficace incipit (« La Grande Proletaria si è mossa… »), è il sintomo clamoroso di quello sbriciolamento, che presto diventerà una frana. Nel 1913 un importante dirigente socialista scrive a un letterato, già suo compagno di Partito : « troppi intellettuali […] ci lasciarono da qualche anno in qua »49. Precisamente il conflitto ha favorito quell’allontanamento, consolidando pulsioni colonialistiche e trasformandole in opzioni più nitidamente imperialistiche. E, trattandosi di guerra coloniale, la poesia si può liberare senza remore verso quei sub-umani che un destino crudele ha fatto nascere in Africa, anche se, nella retorica giustificazionistica, si osa parlare di guerra di liberazione dei poveri arabi del Nord-Africa soggetti al dominio dei turchi ottomani. Non è l’unico argomento, è ovvio. Si fa ricorso alla storia (e si ripristina la denominazione latina di Libia – Lybia –, preferibilmente a Cirenaica e Tripolitania, allora province dell’Impero Ottomano), per sostenere che quelle terre furono già ‘nostre’ ; si usa il canonico richiamo geopolitico, sostenendo che l’Italia dovrà controllare quell’area – « la quarta sponda » – per evitare di essere circondata e accerchiata dalle altre Grandi potenze ; e del resto, appunto un possedimento coloniale è la carta necessaria da giocare per entrare in quel club esclusivo ; infine, il grande argomento demografico, quello sintetizzato nel discorso di Pascoli : popolo prolifico con terra insufficiente, da cui l’emigrazione, una piaga storica del Paese che solo un nuovo lembo di patria fuori d’Italia potrà sanare.
- 50 Cfr. G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, A. Torre (ed.), Mil (...)
34Per argomentare, un consistente gruppo di letterati, giornalisti, docenti d’università si lasciano volentieri ingaggiare, elaborando, scrivendo, raccontando. E fanno le prime prove i corrispondenti di guerra, che, generalmente, narrano episodi inventati, o sentiti raccontare, e li riproducono agghindandoli opportunamente. Molti pubblicisti – il giornalismo professionistico era cosa rarissima, ancora – vanno a Tripoli e Bengasi, inviando fantasiose corrispondenze, come ancor più fantasiose sono state le ‘rappresentazioni’ di quel « Paradiso terrestre » che taluni di loro hanno descritto prima dell’ultimatum italiano alla Turchia, della fine di settembre 1911. Tra costoro, va almeno menzionato Giuseppe Bevione, della Stampa (prima di passare al contendente torinese Gazzetta del Popolo), un esempio da manuale dell’invenzione giornalistica, che suscita le aspre e sardoniche reprimende di Salvemini, prima di incappare nell’affilato rasoio critico del giovane Gramsci50. Precisamente Bevione, sull’onda della sua campagna di efficaci menzogne, nel giugno 1914, poco prima, dunque, dello scoppio della Guerra europea, risulta vincitore nell’aspra contesa per l’elezione suppletiva in un collegio elettorale torinese, battendo, sotto le insegne del Blocco Nazionale, per una manciata di voti, il candidato socialista, operaio : un uomo di penna che sconfiggeva un proletario, un nazionalista che batteva un socialista. Difficile trovare un evento altrettanto emblematico dei processi politico-ideologici in corso nell’Italia a cavallo della Grande guerra.
- 51 Mi riferisco ovviamente a R. Rolland, Au-dessus de la mêlée, Paris, Ollendorf, 1915, e a J. Benda, (...)
- 52 Cfr. R. Rolland, Journal des années de guerre, Paris, Albin Michel, 1952 ; mi permetto di rinviare, (...)
- 53 Cfr. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi [1926], in Scritti storici, letterari e filosofici, P. Spr (...)
- 54 Citato in M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento [1 (...)
- 55 R. Bosworth, Italy and the Approach of First World War, London – Basingstoke, Macmillan, 1983, p. 6 (...)
35Questa, ormai, era alle porte, quasi invocata ed evocata in tanto bellicismo diffuso. E il suo scoppio, in Italia come altrove in Europa, produce un compatto irrigidirsi dei chierici sotto le proprie bandiere nazionali : Romain Rolland – rara avis – invano tenta di fermare quella china, denunciando con parole alte, e un po’ rétro, l’offuscamento della ragione, anticipando così il suo connazionale Benda, che, senza mezzi termini, avrebbe, anni dopo, parlato di « trahison des clercs »51. Se davanti alla Libia si era comunque registrata una certa divisione nel mondo intellettuale, con lo scoppio di quella che fu immediatamente per tutti una « grande guerra » il coro dei consensi è unanime, in Italia come in Europa. È quello lo snodo decisivo : si tratta di un delirio collettivo davanti al quale la voce di Rolland, ormai ripiegata su se stessa, registra, con il tono della più amara delle sconfitte, l’obnubilamento della ragione europea52. Gli intellettuali italiani, negli undici mesi della neutralità, sono tutti corifei dell’intervento e, in fondo, per molti di loro quello che conta è la guerra, a prescindere dagli obiettivi : per tutti, solo la guerra potrà edificare la nazione, farla davvero « una », ulteriore biglietto d’ingresso nel circolo internazionale delle Grandi Potenze. La Libia era stata una guerricciola e il Risorgimento era stato, per usare una celebre formula gobettiana, « senza eroi »53 ; o, piuttosto, semplicemente, aveva sparso poco sangue. Il sangue è il cemento dei popoli, il legame che li rende solidali. Se non furono les hommes de plume a portare l’Italia in guerra, ma la triade politica costituita dal re Vittorio Emanuele III, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri, quel Sonnino a noi già noto, che agivano anche per le pressioni di gruppi industriali – dagli Ansaldo alla Fiat – e finanziari, furono comunque loro, i chierici, a preparare il terreno e a fornire una gran massa di argomenti volti a giustificare quella decisione che, come sappiamo, venne presa contro il volere del Parlamento e certamente della stragrande maggioranza del popolo italiano. Alle masse – sia quelle trascinate sul Carso, dove a centinaia di migliaia rimasero, sotto terra, sia a quelle rimaste a casa, a cercare di far funzionare il meccanismo produttivo, nelle campagne, nelle officine, negli uffici, di liberare le « terre irredente », di cui ignoravano perlopiù la stessa esistenza – importava poco o punto. Arriva così al suo raccolto, la lunga seminagione di pulsioni bellicistiche e imperialistiche, la retorica del grande passato – che nei futuristi si rovescia, solo apparentemente, in quella del futuro necessario, immancabilmente più grande –, l’insistenza sui « diritti nazionali », estrinsecate in fiumi di parole, su giornali, pamphlets, libri, conferenze. Lo scrittore statunitense Randolph Bourne parla, nel 1917, di « una guerra fatta deliberatamente dagli intellettuali »54 ; egli si riferisce all’Europa in generale, anche se in quello stesso anno anche il suo Paese si infila nel grande massacro ; e ciò vale anche, naturalmente, per l’Italia, come ha notato uno storico britannico : « i veri leaders della causa interventista furono gli intellettuali »55. Qui, anzi, si udirono le trombe più sonore del bellicismo intellettuale, di cui soprattutto i futuristi sono stati, negli anni precedenti, i rappresentanti per eccellenza. Prima dell’Intervento, forse la voce più sguaiata è quella collettiva della fiorentina Lacerba, Giovanni Papini in testa ; l’articolo a cui ho già fatto riferimento, Amiamo la guerra !, è un vero e proprio classico in tal senso.
- 56 G. Papini, « Amiamo la guerra ! », Lacerba, II, no 20, 1 ottobre 1914 (nell’antologia La cultura it (...)
Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente la stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto ; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre ; e una muraglia di svampate per i freschi di ottobre. È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli ; i civili son pronti a tornar selvaggi ; gli uomini non rinnegano le madri belve. Non si contentano più dell’omicidio al minuto : in ogni canto del mondo è aperto un macello all’ingrosso. […] Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati ; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita. […] La guerra, infine, giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. […] E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendieranno saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli […] Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra e assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi56.
36Licenziando l’ultimo numero di Lacerba il 22 maggio del ‘15, ancora Papini lancia il suo ultimo interrogativo retorico :
- 57 G. Papini, « Abbiamo vinto ! », Lacerba, III, no 22, 22 maggio 1915 (ora nell’antologia La cultura (...)
se gli artisti – che sono uomini di genio e perciò vedono più e più lontano degli altri – stanno zitti o si rinchiudono nella loro letteratura cosa faranno gli altri che non hanno né ingegno né capacità nessuna di scatti generosi e d’idee chiare57 ?
- 58 Per i retroscena della collaborazione dannunziana al Corriere : L. Albertini, Epistolario : 1911-19 (...)
- 59 Traggo le espressioni dannunziane da alcuni discorsi del maggio 1915, da lui stesso pubblicati : G. (...)
- 60 B. Mussolini, « Audacia ! », Il Popolo d’Italia, 15 novembre 1914 : l’articolo è ripubblicato, con (...)
37L’intellettuale, quindi, viene presentato come rischiaratore delle coscienze, il solo che possa indicare la strada alla nazione tutta, anche quando si tratti di schierarsi contro maggioranze, che però hanno le debolezze degli ignavi e la sola forza del numero. È la medesima concezione da cui è animato Gabriele d’Annunzio : sommando in sé l’attivismo di un Corradini e la violenza di un Papini, grazie alle pagine generosamente quanto incautamente apertegli da Luigi Albertini sul primo quotidiano italiano, il Corriere della Sera58, egli diventa la figura principale della cultura interventista. Tutti gli argomenti contro il giolittismo, cosparsi e diffusi in una foresta di metafore, trovano spazio negli scritti e nei discorsi del poeta che ambisce a essere considerato « vate », unico e autentico interprete di una genuina anima popolare, che egli fa credere essere contro una classe politica inetta e ignava. Si costruisce un’ideologia, la si ripete e la si propala, e poi si afferma essere l’opinione pubblica, secondo un modello che avrebbe avuto fortuna nel secolo. La responsabilità maggiore dell’« Imaginifico » è legata alla facilità con cui la sua parola si converte in ingiuria, e l’invettiva si fa minaccia, e l’istigazione diventa tout court aggressione fisica : negli inviti reiterati ad « appiccare il fuoco pugnace », a combattere e vincere « questa suprema battaglia contro il nemico interno prima di muoverci come un solo impeto verso la santa riconquista », a spazzare « tutte le lordure » e ricacciare « nella Cloaca tutte le putredini », a rovesciare i banchi e spezzare « le false bilance »59, v’è il drammatico segnale del precipitare d’una crisi irreversibile, la quale non necessariamente avrebbe dovuto condurre al fascismo, ma apre, forse davvero in modo irrevocabile, la strada all’irrompere della violenza nella lotta politica italiana. Il mussolinismo, col 1919 divenuto fascismo, ne sarà l’agente precipuo, il vero protagonista, dopo i preludi dannunziani, marinettiani, lacerbiani. « Il grido è una parola che io non avrei mai pronunciato in tempi normali, e che innalzo invece forte, a voce spiegata, senza infingimenti, con sicura fede, oggi : una parola paurosa e fascinatrice : guerra ! »60.
38Con queste parole Mussolini, transfuga del Partito Socialista, conclude l’editoriale del no 1 del suo nuovo quotidiano, Il Popolo d’Italia, a metà novembre del ’14, non senza aver dichiarato : « la propaganda antiguerresca è la propaganda della vigliaccheria. Ha fortuna perché vellica ed esaspera l’istinto della conservazione individuale ».
- 61 A. Molina, Tempo di squadrismo, Pavia, Edizioni Super, 1939, p. 18.
39Avrebbe notato un fascista di provincia, in una rievocazione dei tardi anni Trenta : « Le parole di Mussolini nel primo numero erano quelle di Lacerba, erano quelle di D’Annunzio, erano quelle di tutti gli interventisti di qualche valore »61.
- 62 Cfr. A. D’Orsi, Da Adua a Roma…, p. 103 sq., anche per ulteriori rinvii bibliografici.
- 63 B. Mussolini, « Trincerocrazia », Il Popolo d’Italia, 15 dicembre 1917, ora in Scritti politici, p. (...)
40La guerra al nemico esterno, che con Caporetto (24 ottobre 1917) diviene anche guerra al nemico interno, è da allora la cifra essenziale dell’intellettualità, che se ne lascia sedurre, mobilitare, talora armare. Il « Servizio P », ossia l’ufficio creato per rimotivare i soldati italiani dopo la disfatta, è un polo di reclutamento di letterati, giornalisti, professori. La comunicazione politica trova in essi un efficace strumento di azione, che si traduce in giornali di trincea, in conferenze, in discorsi patriottici dagli argomenti nuovi, e soprattutto dalle promesse più appetibili : la terra, anziché la patria62. Nasce, tra il Piave e Vittorio Veneto, una nuova retorica bellicistica e patriottica, con il mito della guerra rivoluzionaria e, dopo Caporetto, quello della « trincerocrazia », teorizzata da Mussolini63. Senza soluzione di continuità, letterati, giornalisti, professori si presteranno alla mitopoiesi, anche dopo la conclusione del conflitto : e proprio « la Vittoria » è l’elemento portante della nuova costruzione che, ipso facto, nondimeno, il solito Vate adorna di un cupo attributo : « mutilata ».
- 64 [Alfa Gamma], « I futuristi », Corriere Universitario, I, no 1, 20 maggio 1913 (poi in A. Gramsci, (...)
- 65 Cfr. P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, R. De Felice (pref.), Roma (...)
- 66 Cfr. A. D’Orsi, Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna, Roma, Donzelli, 2007, p. 107 sq
- 67 B. Mussolini, « Discorso agli operai della Fiat. Torino, 14 maggio 1939 », in Scritti politici, p. (...)
41Comincia allora una nuova fase della vicenda nazionale, con la crisi del dopoguerra, un dopoguerra che non è una pace. La violenza, dopo le prove del « maggio radioso », diventa protagonista, a partire dall’assalto alla sede del quotidiano socialista Avanti !, il 15 aprile 1919, un episodio in cui si realizza una fusione tra letterati, giornalisti, studenti, ufficiali smobilitati, futuristi, arditi, protofascisti, nazionalisti, ex socialisti ed ex sindacalisti rivoluzionari : la stessa miscela che, poco prima, il 23 marzo, si era proposta all’attenzione distratta della politica italiana, con la fondazione dei Fasci di Combattimento. Accadono tutti a Milano, questi fatti, come la « fischiata » a Leonida Bissolati impedito di parlare alla Scala il 14 gennaio. Tra i fischiatori, Filippo Tommaso Marinetti, attorniato da quello che Gramsci avrebbe chiamato un « branco di scimmie urlatrici »64. Nondimeno, quelle scimmie urlatrici, corrotte dal profumo del potere, o da quello del denaro, ma, aggiungo, stimolate dal sogno vociano degli intellettuali protagonisti, si trasformeranno nei veri artefici di quella che è stata chiamata « la fabbrica del consenso »65. Il fascismo è sufficientemente moderno per cogliere il ruolo nuovo che si prospetta ai « chierici » e, tra incentivi materiali e seduzioni ideali, li irreggimenta, facendone pilastri del proprio potere. La nuova Italia, l’Italia fascista, l’Italia della Terza Roma – quella dei Fasci, che fa seguito alla Roma degli Imperatori e a quella dei Papi – diventa il fine e insieme lo sfondo dell’azione di un ceto intellettuale che si sta trasformando anche sociologicamente, con il nascere di figure professionali nuove, in relazione agli esordi di una cultura di massa, ma, anche e soprattutto, alle pratiche politiche e ideologiche di un movimento che, già all’indomani dell’ascesa al potere, si preoccupa di creare un Ufficio Stampa e Propaganda alle dirette dipendenze del capo del Governo, poi trasformato in Sottosegretariato, quindi in Ministero, infine, nel 1937, annus horribilis della storia europea, nel famigerato Ministero della Cultura popolare66. In quello stesso anno vede la luce l’ultimo volume della Enciclopedia Italiana – il 35° –, monumento dello spirito imprenditivo di Giovanni Gentile e dell’interessato mecenatismo di Giovanni Treccani. La cultura alta e la cultura bassa, l’intrattenimento e la formazione superiore, i « telefoni bianchi » e la scuola, i giornali e la radio (nel 1924 era nato l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, EIAR) : il grande calderone del consenso al regime e al suo duce usa tutto pur di raggiungere lo scopo. La Gioventù Italiana del Littorio, con i Littoriali, l’organizzazione dei GUF, l’Istituto Luce, e le mille iniziative e intraprese culturali dietro cui spesso si staglia la possente figura di Gentile, o quella furbesca di Bottai, costituiscono altrettanti fili di una complessa ragnatela che deve testimoniare quello scopo finale : l’edificazione della « nuova Italia ». Di quella Italia, letterati, scienziati, artisti sarebbero stati le guide : così almeno si fa credere loro, cui spetta il gran compito dell’« educazione delle nuove generazioni », della creazione di un tipo nuovo di cittadino-milite, « il tipo fisico e morale dell’italiano nuovo »67. Sono parole roboanti di Mussolini, che ha ormai indossato, ancor prima di entrare nell’ultima sua guerra, i panni del guerriero, accanto ad Hitler ; e non v’è dubbio che il duce ritenesse di rappresentare egli stesso il modello idealtipico di quell’italiano. Era stato, naturalmente, un letterato, Mario Carli – già futurista, ardito, fiumano e poi « sansepolcrista », ossia presente all’adunata di fondazione dei Fasci, il 23 marzo 1919, a Milano, in un locale di Piazza San Sepolcro –, a preparare il terreno, dando alle stampe, nel 1930, un bolso romanzo, peraltro di notevole successo, in cui provò a esplicitare, narrativamente, quel tipo nuovo. Il titolo ? L’italiano di Mussolini.
Notes
1 L. Federzoni, Italia di ieri per la storia di domani, Milano, Mondadori, 1967, p. 13.
2 M. Morasso, « Ai nati dopo il ’70. La terza reazione letteraria », Il Marzocco, 7 febbraio 1897.
3 Rinvio a C. Charle, Naissance des intellectuels (1880-1900), Paris, Éditions de Minuit, 1990, e M. Winock, Le siècle des intellectuels, Paris, Seuil, 1997.
4 P. Gobetti, « Un conservatore galantuomo », La Rivoluzione Liberale, III, no 18, 29 aprile 1924, ora in Scritti politici, P. Spriano (dir.), Torino, Einaudi, 1969, p. 652-657 ; cfr. anche A. D’Orsi, Allievi e maestri. L’Università di Torino nell’Otto-Novecento, Torino, Celid, 2002, p. 103-125.
5 G. Carducci a C. Zanichelli, 10 marzo 1896, citato in P.M. Arcari, Le elaborazioni della dottrina politica nazionale tra l’Unità e l’intervento. 1870-1914, vol. I, Firenze, Marzocco, 1934, p. 165.
6 Cfr. S. Sighele, Contro il parlamentarismo. Saggio di psicologia collettiva, Milano, Treves, 1895, e Un Deputato [S. Sonnino], « Torniamo allo Statuto », Nuova Antologia, LXVII, 1897, p. 10 sq.
7 Cfr. E. Corradini, Discorsi politici (1902-1923), Firenze, Vallecchi, s. d. [1924], p. 8. Sul percorso di Corradini, si vedano C.A. Madrignani, L’opera narrativa di Enrico Corradini, in La cultura italiana tra ’800 e ’900 e le origini del nazionalismo, Firenze, Olschki, 1981, p. 235-252 ; F. Filippi, Una vita pagana. Enrico Corradini dal superomismo dannunziano a una politica di massa, Firenze, Vallecchi, 1989.
8 Il Marzocco, « Abba Carima », Il Marzocco, 8 marzo 1896.
9 Mi riferisco al punto 4° del Manifesto di fondazione del Futurismo, e al testo di M. Morasso, La nuova arma. La macchina, Torino, Bocca, 1905 ; per i testi e l’analisi degli stessi, rinvio a A. D’Orsi, Il Futurismo tra cultura e politica. Rivoluzione o reazione ?, Roma, Salerno Editrice, 2009.
10 G. Papini, « Amiamo la guerra ! », Lacerba, 1° ottobre 1914, ora ibid., p. 264-266.
11 Cfr. A. D’Orsi, Da Adua a Roma. La marcia del nazionalfascismo (1896-1922), Torino, Aragno, 2006, p. 48.
12 Cfr. A. Hermet, La ventura delle riviste, Firenze, Vallecchi, 1940.
13 B. Croce, « Alfredo Oriani » [1908], in La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1973, vol. III, p. 215-244.
14 A. Gramsci, Quaderno 6, 1930-1932, in Quaderni del carcere, V. Gerratana (ed.), Torino, Einaudi, 1975, vol. II, p. 735-736.
15 Cfr. E. Santarelli, « La fortuna di Oriani », in appendice a G.B. Bianchi, Alfredo Oriani, Urbino, Argalia, 1965 (poi in E. Santarelli, Ricerche sul fascismo, Urbino, Argalia, 1971) ; V. Pesante, Il problema Oriani. Il pensiero storico-politico. Le interpretazioni storiografiche, Milano, Franco Angeli, 1996, specialmente la p. II.
16 P.M. Arcari, Le elaborazioni…, vol. I, p. 519.
17 Ho sviluppato questa tesi nella relazione « Una voce pro, una voce contro », nel Convegno fiorentino per il centenario della rivista, Firenze, 4 dicembre 2008 (Atti in preparazione).
18 G. Benedetti, Enrico Corradini, Piacenza, Porta, 1922, p. 10.
19 Il discorso al Senato di Mussolini (11 dicembre 1931) è leggibile come tutti gli altri testi mussoliniani cui faccio riferimento in Opera Omnia di Benito Mussolini, E. e D. Susmel (ed.), vol. XXV, Dal dodicesimo anniversario della fondazione dei Fasci al Patto a quattro. 24 marzo 1931-7 giugno 1933, Firenze, La Fenice, 1958, p. 69-71.
20 H. Massis, G. de Tarde, Les jeunes gens d’aujourd’hui, Paris, Imprimerie nationale, 1995 (1a ed. firmata Agathon, Paris, Plon, 1913).
21 U. Fracchia, « Una generazione », in Pier Ludovico Occhini, A. Severi (ed.), Arezzo, R. Accademia Petrarca, 1934, p. 155-156.
22 C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano (D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello) [1977], Milan Feltrinelli, 1993, p. 94 ; cfr. anche P. Alatri, « D’Annunzio : ideologia e politica. Saggio introduttivo », in G. D’Annunzio, Scritti politici, P. Alatri (ed.), Milano, Feltrinelli, 1980, p. 14 sq., e P. Alatri, Gabriele D’Annunzio, Torino, Utet, 1983, p. 138 sq.
23 Rinvio alle opere ormai classiche : E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900 /1943 [1955], e, in appendice, Quindici anni dopo 1945 /1960 [1975], Roma – Bari, Laterza, 1997, 2 vol., e Gli intellettuali italiani del XX secolo [1974], Roma, Editori Riuniti, 1996 ; N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Torino, Einaudi, 1986 (1a ed. nella Storia della Letteratura Italiana diretta da E. Cecchi, N. Sapegno, Milano, Garzanti, 1969) ; A. Asor Rosa, La cultura, in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a Oggi, Torino, Einaudi, 1975, t. 2, p. 1099-1311 ; R. Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici ceto intellettuale sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, 1981, vol. I, p. 45-85, e cfr. anche S. Lanaro, La cultura antigiolittiana, in Storia della società italiana, vol. XX, L’Italia di Giolitti, Milano, Teti, 1981.
24 G. Volpe, Italia moderna [1949], Firenze, Sansoni, 1973, vol. I, p. 358 (ora Firenze, Le Lettere, 2002).
25 Ibid.
26 P.M. Arcari, Le elaborazioni…, vol. I, p. 239. Cfr. poi S. Gentili, Trionfo e crisi del modello dannunziano, Firenze, Vallecchi, 1981, p. 13-142 ; R. Contarino, Il primo Marzocco (1896-1900), Bologne, Patron, 1982. Di grande utilità II Marzocco (Firenze 1896-1932), C. Rotondi (ed.), Firenze, Olschki, 1980, 2 vol. E infine II Marzocco. Carteggi e cronache fra Ottocento e avanguardie (1887-1913), C. Del Vivo (ed.), Firenze, Olschki, 1985.
27 G. Benedetti, Enrico Corradini, p. 45.
28 Citato in F. Roncoroni, « Gabriele D’Annunzio. La vita. Profilo storico-critico dell’autore e dell’opera. Guida bibliografica », in G. D’Annunzio, Poesie, F. Roncoroni (ed.), Milano, Garzanti, 1978, p. CXXVIII.
29 V. Picardi, rec. a « P.L. Occhini, Enrico Corradini. Scrittore e nazionalista, Roma, Garzoni Provenzani, 1914 », Rassegna Contemporanea, VII, 1914, p. 125.
30 Si tratta di Enrico A. Butti che così risponde alle domande del suo intervistatore : U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati [1895], Milano, Bocca, 1899, p. 119-120 (nuova ed. a cura di P. Pancrazi, Firenze, Le Monnier, 1946, poi, con postfazione di N. Merola, Roma, Gela, 1987). L’inchiesta di Ojetti è utile per capire gli orientamenti della cultura italiana nella fase terminale dell’Italia umbertina.
31 N. Bobbio, « La cultura italiana fra Ottocento e Novecento », in La cultura italiana tra ’800 e ’900…, p. 17.
32 Cfr. R. Luperini, Gli esordi del Novecento e l’esperienza della Voce [1978], Roma – Bari, Laterza, 1990, p. 9 sq.
33 F. Barbagallo, « Età giolittiana », in La Storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, N. Tranfaglia, M. Firpo (dir.), vol. VIII, L’Età Contemporanea. 3. Dalla Restaurazione alla prima guerra mondiale, Torino, Utet, 1986, p. 721.
34 Cfr. la prefazione di G. Prezzolini alla raccolta in G. Papini, G. Prezzolini, Vecchio e nuovo nazionalismo, Milano, Studio Editoriale Lombardo, 1914 (riedito con prefazione di P. Buscaroli, Roma, Volpe, 1967). Ma cfr. altresì la rievocazione prezzoliniana « Nel VII anniversario del Regno », La Voce, II, no 51, 1909, p. 445. Sul piano storiografico : E. Gentile, « Papini, Prezzolini e le origini del nazionalismo italiano » [1969], ora in Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma – Bari, Laterza, 1982, p. 81-101.
35 Cfr. D. Castelnuovo Frigessi, « Introduzione », in La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. I, Leonardo, Hermes, Il Regno, D. Castelnuovo Frigessi (ed.), Torino, Einaudi, 1960, p. 60 sq.
36 Il dibattito esce col titolo « La borghesia può ancora risorgere ? », Il Regno, I, no 7, 10 gennaio 1904, ora nell’antologia La cultura italiana del ’900…, vol. I, p. 467-471. Sul nodo Prezzolini-Pareto e l’esperienza del Regno, cfr. per un’interpretazione differente da quella della Frigessi, E. Gentile, Papini, Prezzolini…, p. 90 sq.
37 Cfr. J.-L. Miège, L’imperialismo coloniale italiano. Dal 1870 ai giorni nostri, Milano, Rizzoli, 1976, p. 41 sq.
38 E. De Marinis, « Prefazione », in G. Amadori Virgilj, Il sentimento imperialista. Studio psico-sociologico, Milano – Palermo – Napoli, Sandron, 1906, p. X.
39 Cfr. G. Landucci, « Darwinismo e nazionalismo », in La cultura italiana tra ’800 e ’900…, p. 103-187, specie p. 114 sq.
40 Del cesarismo corradiniano fa fede la tragedia Giulio Cesare (1902) (« De son Jules César, il sortit césarien »), scriverà il socialdemocratico belga J. Destrée, Figures italiennes d’aujourd’hui, Bruxelles – Paris, Van Oest, 1918, p. 197.
41 Nella lettera (s. d. ma del 1905), riferendosi a un proprio non precisato testo teatrale Corradini scrive : « Considero quel dramma come l’ultimo peccato della mia ultima giovinezza ormai vecchia, e da qui tenterò altri argomenti di per sé più eccitanti » (in Firenze, Biblioteca Nazionale Marucelliana, Carte Carlo Placci).
42 Cfr. L. Strappini, « Introduzione », in E. Corradini, Scritti e discorsi / 1901-1914, L. Strappini (ed.), Torino, Einaudi, 1980, p. XXXVI sq.
43 E. Corradini, « La virtù nazionale », Il Regno, II, no 6, 5 febbraio 1905 (poi in La vita nazionale, Firenze, Lumachi, 1907 ; ora in Scritti e discorsi…, p. 88-106, p. 90-91 per la citazione).
44 Cfr. « La conferma del cannone », in Il Regno, I, no 12, 14 febbraio 1904 (ora nell’antologia La cultura italiana del ’900…, vol. I, p. 477-478).
45 E. Corradini, « Susume ! », Il Regno, I, no 28, 5 giugno 1904 (poi in La vita nazionale, quindi in Scritti e discorsi…, p. 75-80, p. 76 per la citazione).
46 Cfr. A. D’Orsi, Il Futurismo…, in particolare l’« Introduzione » e il cap. I.
47 E. Corradini, « La guerra », Il Regno, I, no 14, 28 febbraio 1914 (ora in La cultura italiana del ’900…, vol. I, p. 482-485).
48 Cf. M. Morasso, Contro coloro che non hanno e che non sanno, Milano, Sandron, 1899, e F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, E. Weisel (trad.), Torino, Bocca, 1899.
49 O. Morgari a G. Balsamo Crivelli, 25 agosto 1913, citato in G. Bergami, « Gramsci e i lineamenti ideali del socialismo torinese », in Storia del movimento operaio del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, A. Agosti, G.M. Bravo (ed.), vol. II, L’etò giolittiana, la guerra e il dopoguerra, Bari, De Donato, 1979, p. 93-348 (p. 303 per la citazione).
50 Cfr. G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, A. Torre (ed.), Milano, Feltrinelli, 1963 ; ma cfr. anche A. Gramsci, La nostra città futura. Scritti torinesi (1911-1922), A. D’Orsi (ed.), Roma, Carocci, 2004, ad nominem ; cfr. anche la mia « Introduzione ».
51 Mi riferisco ovviamente a R. Rolland, Au-dessus de la mêlée, Paris, Ollendorf, 1915, e a J. Benda, La trahison des clercs, Paris, Grasset, 1927.
52 Cfr. R. Rolland, Journal des années de guerre, Paris, Albin Michel, 1952 ; mi permetto di rinviare, anche per i rinvii a Benda, a A. D’Orsi, I chierici alla guerra. La seduzione bellica sugli intellettuali da Adua a Baghdad, capitoli 1 e 2. Cfr. ora E. Gentile, L’apocalisse della modernità. La Grande guerra per l’uomo nuovo, Milano, Mondadori, 2008.
53 Cfr. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi [1926], in Scritti storici, letterari e filosofici, P. Spriano (ed.), Torino, Einaudi, 1969.
54 Citato in M. Walzer, L’intellettuale militante. Critica sociale e impegno politico nel Novecento [1988], S. Vertone (intr.), Bologna, Il Mulino, 1991, p. 77. Cfr. A. D’Orsi, I chierici alla guerra…, p. 27 sq.
55 R. Bosworth, Italy and the Approach of First World War, London – Basingstoke, Macmillan, 1983, p. 69.
56 G. Papini, « Amiamo la guerra ! », Lacerba, II, no 20, 1 ottobre 1914 (nell’antologia La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, vol. IV, L’Acerba, La Voce, G. Scalia (ed.), Torino, Einaudi, vol. IV, p. 274-275 ; riportato anche in A. D’Orsi, Il Futurismo…, p. 132-133).
57 G. Papini, « Abbiamo vinto ! », Lacerba, III, no 22, 22 maggio 1915 (ora nell’antologia La cultura italiana del ’900…, vol. IV, p. 161-162).
58 Per i retroscena della collaborazione dannunziana al Corriere : L. Albertini, Epistolario : 1911-1926, Milano, Mondadori, 1968, vol. I, p. 266 sq., e più in generale sull’interventismo di D’Annunzio, P. Alatri, Gabriele D’Annunzio…, p. 343 sq. ; A. Andreoli, Il vivere inimitabile. Vita di Gabriele D’Annunzio, Milano, Mondadori, 2000, p. 509 sq.
59 Traggo le espressioni dannunziane da alcuni discorsi del maggio 1915, da lui stesso pubblicati : G. D’Annunzio, « Per la più grande Italia », in Tutte le opere. Prose di ricerca, di lotta, di comando, di conquista, di tormento, d’indovinamento, di rinnovamento, di celebrazione, di rivendicazione, di liberazione, di favole, di giochi, di baleni [1953], E. Bianchetti (ed.), vol. I, Per la più grande Italia. Notturno. Il libro ascetico della giovane Italia. Il sudore di sangue. L’urna inesausta, Milano, Mondadori, 1966, p. 7-70. Un cospicuo gruppo di scritti e discorsi per l’intervento è ripubblicato da Paolo Alatri nell’antologia G. D’Annunzio, Scritti politici, p. 123-147.
60 B. Mussolini, « Audacia ! », Il Popolo d’Italia, 15 novembre 1914 : l’articolo è ripubblicato, con l’ultimo dell’Avanti ! (« Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante », 18 ottobre 1914) che provocherà l’espulsione dal partito, nell’antologia B. Mussolini, Scritti politici, E. Santarelli (ed.), Milano, Feltrinelli, 1979, p. 139-149 e 155-157.
61 A. Molina, Tempo di squadrismo, Pavia, Edizioni Super, 1939, p. 18.
62 Cfr. A. D’Orsi, Da Adua a Roma…, p. 103 sq., anche per ulteriori rinvii bibliografici.
63 B. Mussolini, « Trincerocrazia », Il Popolo d’Italia, 15 dicembre 1917, ora in Scritti politici, p. 171-173.
64 [Alfa Gamma], « I futuristi », Corriere Universitario, I, no 1, 20 maggio 1913 (poi in A. Gramsci, Per la verità. Scritti 1913-1926, R. Martinelli (ed.), Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 919-920 ; in Cronache torinesi. 1913-1917, S. Caprioglio (ed.), Torino, Einaudi, 1980, p. 6-9 ; e infine in La nostra città futura…, p. 105-106). Rinvio ancora all’intervento di Francesca Chiarotto in questo volume per un approfondimento del giudizio gramsciano.
65 Cfr. P.V. Cannistraro, La fabbrica del consenso. Fascismo e mass media, R. De Felice (pref.), Roma – Bari, Laterza, 1975.
66 Cfr. A. D’Orsi, Guernica, 1937. Le bombe, la barbarie, la menzogna, Roma, Donzelli, 2007, p. 107 sq.
67 B. Mussolini, « Discorso agli operai della Fiat. Torino, 14 maggio 1939 », in Scritti politici, p. 315.
Haut de pagePour citer cet article
Référence papier
Angelo D’Orsi, « Gli intellettuali e la « nuova Italia » : dal nazionalismo al fascismo », Transalpina, 12 | 2009, 23-50.
Référence électronique
Angelo D’Orsi, « Gli intellettuali e la « nuova Italia » : dal nazionalismo al fascismo », Transalpina [En ligne], 12 | 2009, mis en ligne le 05 mai 2022, consulté le 14 mai 2025. URL : http://journals.openedition.org/transalpina/2789 ; DOI : https://doi.org/10.4000/transalpina.2789
Haut de pageDroits d’auteur
Le texte et les autres éléments (illustrations, fichiers annexes importés), sont « Tous droits réservés », sauf mention contraire.
Haut de page